mercoledì 22 febbraio 2012

Incontro a Oristano

Sabato 25 Febbraio 2012 parteciperò ad Oristano ,alle 15,30 presso la sala conferenze Hospitalis Santi Antoni,in via Cagliari 157,fronte distributore Esso,all'assemblea con l'on Giuseppe FIORONI,deputato PD e già ministro dell'Istruzione,in cui si parlerà di "Impegno Politico dei Cattolici dopo il Governo Monti"


Una nitida fotografia!












Credo che questo editoriale dia davvero la misura di quanto politicamente è successo ma soprattutto di quel che verosimilmente accadrà nel nostro Paese a seguito dell'avvento del governo Monti.
Un'analisi che non potrà e non dovrà certamente essere elusa dai partiti,volenti o nolenti!





Una terza Repubblica contro i partiti?

di ILVO DIAMANTI


NON E' FACILE prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. (Mi accontento di prevedere il passato. E non sempre mi riesce bene.) Tuttavia, mi sentirei di avanzare un'ipotesi. Facile. Nulla resterà come prima. L'esperienza del governo tecnico, infatti, sta mettendo a dura prova la tenuta dei principali partiti, ma anche - soprattutto - delle alleanze e delle coalizioni precedenti.

Oggi, d'altronde, appare in crisi la legittimazione stessa dei partiti in quanto tali. La fiducia nei loro confronti è, infatti, scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012). D'altronde, non può essere privo di conseguenze, il fatto che la gestione della crisi sia stata affidata a un governo di "tecnici". Segno dell'incapacità dei partiti di assumere responsabilità - di governo ma anche di opposizione - di fronte agli elettori. Da ciò deriva la "popolarità" di questo governo (una settimana fa l'Ipsos la stimava intorno al 60%), in grado di prendere decisioni "impopolari". Mentre i partiti sostengono le decisioni del governo tecnico - oppure vi si oppongono - al "coperto". Dietro le quinte. In Parlamento. Nulla resterà come prima, nei partiti e nel sistema partitico, dopo Monti. Perché questa fase di "sospensione" ne accentua le difficoltà.
Quanto alla dimensione organizzativa e al rapporto con la propria base, basti osservare quel che sta succedendo nei principali partiti - Pdl e Pd. Il Pdl ha avviato una fase congressuale per affrontare il dopo-Berlusconi. Ma ciò che sta avvenendo in numerose province - sia del Sud che del Nord (in Veneto e a Vicenza, ad esempio) - dimostra quanto il partito sia esposto alle pressioni - non sempre lecite - di lobby locali. Non a caso il segretario del partito, Angelino Alfano, alcuni giorni fa, ha dovuto precisare - e minacciare - che "non faremo svolgere i congressi se si riscontrano situazioni gravi, nelle quali non vediamo chiaro".

D'altra parte, nel Pd, le tensioni e le divisioni, a livello nazionale e locale, sono diffuse ed evidenti. E hanno prodotto effetti non desiderati - per quanto prevedibili. Soprattutto nella selezione dei candidati alle prossime elezioni amministrative, mediante le "primarie". Le quali continuano ad essere utilizzate "à la carte". Talora a livello di partito, altre volte di coalizione. Con il risultato, in alcuni casi, da ultimo a Genova (e prima in Puglia, a Milano e a Cagliari), di favorire il candidato di un altro partito (seppure alleato). Da ciò il paradosso. Le primarie, "mito fondativo del Pd", secondo Arturo Parisi (forse il primo a concepirle), hanno legittimato leader di altri partiti - alleati ma anche concorrenti. E indebolito, di conseguenza, la leadership del Pd nel Centrosinistra. Locale e nazionale.

Ma altrettanto critica appare la questione dei rapporti e delle alleanze tra i partiti. Nell'attuale maggioranza, solo l'Udc e il Terzo Polo appaiono "organici" al governo Monti. Voluto e imposto dal Presidente Napolitano. I principali partiti della maggioranza, Pdl e Pd, considerano questa coabitazione "necessaria", quasi "coatta". Ma incoerente con la loro base elettorale e con la loro storia politica.

Elettori e dirigenti del Pdl, in particolare, vedono il governo Monti come il soggetto che ha "scalzato" il Centrodestra, guidato da Berlusconi. Per questo stesso motivo il governo Monti piace agli elettori del Pd. I quali, tuttavia, ne avversano alcune importanti scelte - dalle pensioni al mercato del lavoro e all'art. 18. Le considerano coerenti con le politiche del Centrodestra. Pdl e Pd, inoltre, si vedono "sfidati" dai loro tradizionali alleati - la Lega a centrodestra, Idv e Sel, a centrosinistra. I quali, a loro volta, da soli, rischiano di divenire periferici. Alle elezioni amministrative che incombono. Tanto più in quelle politiche, del prossimo anno.

Da ciò emerge una serie di conseguenze rilevanti, in prospettiva futura.
1. Se i partiti della Seconda Repubblica si sono personalizzati, la leadership personale dei partiti si sta rapidamente indebolendo. L'unico leader che mantenga un alto livello di consensi, tra gli elettori, infatti, è Monti - intorno al 60%. Tutti i leader di partito, da metà gennaio ad oggi, hanno, infatti, perso consensi e si posizionano molto più in basso.
2. Anche i partiti maggiori, però, hanno perduto consensi. Il Pdl, in particolare, ridotto al 22%. Mentre il Pd, da gennaio (quando aveva superato il 29%), sta declinando, seppure lentamente.
3. Se si valuta la posizione degli elettori sullo spazio politico, però, emerge con chiarezza come la struttura delle coalizioni non sia cambiata. In particolare, la distanza tra gli elettori del Pdl e del Pd si è allargata, per reazione alla coabitazione "coatta".
Tuttavia, i giudizi sulle specifiche questioni politiche e sulle scelte politiche del governo appaiono meno condizionate dall'appartenenza di partito e più dettate dal merito. Quindi meno distanti fra loro.
4. In altri termini, l'esperienza del governo Monti ha ridimensionato la frattura pro-antiberlusconiana. (Anche perché Berlusconi, per ora, se ne sta sullo sfondo.) Ma sta delineando una nuova frattura, o meglio, "distinzione". Pro-antimontiana. Che sta indebolendo i partiti maggiori a favore degli alleati di ieri - oggi all'opposizione. Peraltro, incapaci, da soli, di costruire una vera alternativa.

Da ciò la tentazione del Pd e del Pdl: difendersi dalla concorrenza degli alleati - oggi all'opposizione - con una legge elettorale che renda loro difficile correre da soli. Tuttavia, se i partiti - di maggioranza e opposizione - non dessero soluzione al loro deficit di rappresentanza sociale e di leadership, difficilmente potrebbero - potranno - riprendere la guida del Paese. Andare oltre l'emergenza.

Soprattutto se il governo Monti ottenesse i risultati sperati, dal punto di vista economico e istituzionale. Se svelenisse davvero il clima sociale e d'opinione. Allora fra un anno diverrebbe un "soggetto politico" forte. E potrebbe coltivare l'idea di proseguire l'esperienza "in proprio". Oppure, qualcun altro potrebbe occuparne lo spazio, raccoglierne l'eredità. Tecnica ed extra-politica. Cercando autonomamente il consenso elettorale, con il sostegno di una parte, almeno, dell'attuale maggioranza. Dove non mancano coloro a cui non spiacerebbe continuare questo esperimento.
In un Paese che ha conosciuto 50 anni di democrazia bloccata, intorno alla Dc e ai suoi alleati. E che arranca da vent'anni, inseguendo un bipolarismo sin qui ir-realizzato. Si tratterebbe di una Terza Repubblica che, per alcuni aspetti, rammenta e ridisegna la Prima. Con una differenza importante. Non sarebbe fondata "da" e "su", ma "contro" i partiti.

giovedì 16 febbraio 2012

Caro Celentano...













di Don Marco Sanavio

Prete della diocesi di Padova che dal 1999 si occupa di coniugare il mondo della tecnologia con la pastorale. Ha iniziato a collaborare con alcuni uffici della Conferenza episcopale italiana in occasione del Grande giubileo del 2000, creando il sito www.giovani.org, e ha seguito progetti multimediali all’interno del consiglio direttivo dell’Associazione webmaster cattolici italiani. A Padova è responsabile della Pastorale dei nuovi mezzi di comunicazione. Da un paio d’anni ha avviato la Scuola per educatore mediale.


Un prete in Rete


Caro Celentano,di quali preti parli?



Caro Celentano, di quali preti parli? Caro Celentano,
mi sento autorizzato a risponderti perché ieri sera mi hai interpellato direttamente parlando alla “camera dove son dentro i preti”. Sono uno di quei preti che la predica la preparano, cercano di curarla facendo attenzione al senso, alla concretezza della vita, al ritmo e anche al volume ottimale per coloro che stanno in fondo alla chiesa e, secondo te, sentono male. Mi auguro davvero che tu non li abbia confusi con gli "ultimi" di cui si parla nel Vangelo. Sarebbe grave.
Nelle mie prediche, più che parlare di paradiso, parlo della Risurrezione di Cristo che è il vero e proprio centro della mia fede e anche della tua, se ti professi cattolico. Racconto della salvezza che Lui ci ha portato.


Forse c’è da fare qualche passo anche a livello teologico. Ci è stata promessa la risurrezione della carne (lo dico ogni domenica nel "Credo"), la vita piena, nel giorno del nostro battesimo: di questo parlo io come centinaia di altri preti e frati che ho conosciuto nella mia vita.
Ma non posso tacere di altri argomenti che riguardano il quotidiano della gente e che, talvolta, hanno bisogno di essere illuminati dal Vangelo per diventare segnali indicatori dell'altra dimensione che sembra starti tanto a cuore.
E per farla completa collaboro anche con Famiglia Cristiana, un giornale di cui tu auspichi la chiusura ma che in realtà io trovo estremamente coraggioso, onesto e libero, tanto da dire pane al pane e vino al vino, anche quando si tratta del tuo modo singolare di destinare parte del cachet ai poveri. Non è una rivista nata per dare consolazione ai malati ma per aiutare le persone a collegare la logica del Vangelo con la concretezza della vita. Ovviamente per capirlo bisognerebbe leggerla.


Proprio per il fatto che Gesù Cristo si è incarnato, parlare di ogni ambito della vita dell’uomo alla luce del Vangelo può orientare alla condizione ultima che, ribadisco, è la risurrezione della carne, la vita che continua.
Se una rivista molto popolare fa questo, a mio parere, ha già dato un aiuto grande alla mia azione pastorale nella quale, tra l’altro, suggerisco sempre che la carità dovrebbe essere discreta e non strombazzata per essere più vera.
Me lo insegna il Vangelo. Peccato che per alzare l’audience si debba ricorrere ad un lanciatore di coltelli che, però, continua ad allenarsi guardando la vita dallo specchietto retrovisore. Rischioso... forse basterebbe cantare bene e parlare di meno...


Qualcuno in Rete ha ipotizzato che si potrebbe chiudere anche un Festival dalle spese così esorbitanti in un periodo in cui molte famiglie non arrivano a fine mese costi che, tra l’altro, rendono scandaloso il fatto che si inceppi il sistema di votazione e la gara si debba ripetere. Ma io non arrivo a tanto.
Mi limito a suggerire che una infinitesima parte del tuo cachet tu la possa destinare a migliorare i problemi tecnici che ci rendono più difficile la vita, a cominciare dall’impianto audio delle chiese che frequenti tu e dal sistema di votazione della giuria dell’Ariston. E magari anche a qualche buon libro di teologia.

mercoledì 15 febbraio 2012

Correlazione

Trovo una straordinaria e fantastica correlazione tra lo splendido editoriale di Ezio Mauro di ieri su Repubblica su l'Europa e la crisi e la risposta di Bersani,altrettanto fantastica,sempre ieri su Repubblica alle paure di Eugenio Scalfari,ma anche di chi,come me,ne è venuto a conoscenza,su un presunto tentativo da parte di alcuni importanti dirigenti del partito di trasformare il Pd in un partito socialista,una sorta di succursale del Pse.
Ebbene,ci sono passaggi nel fondo di Mauro che,a mio dire,sottolineano implicitamente in modo estremamente lucido e intelligente anche il ruolo che un partito riformista come il Pd,proprio per il fatto di essere tale,deve necessariamente declinare nel suo lavoro di "ricostruzione" dell'Europa.
Lo stesso che emerge chiaramente nella bella lettera di Bersani.
E allora avanti tutta!



Restituire un futuro al vecchio Continente


EZIO MAURO


ATENE in fiamme, il Parlamento che approva la manovra di tagli e sacrifici, i mercati che applaudono. E il popolo, ci domandiamo tutti, e i cittadini? Sembra che il nuovo ordine europeo possa instaurarsi prescindendo dal consenso, dalla pubblica opinione, dalla fiducia. L'Europa si presenta come una grande banca, un'istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz'anima, dominato dall'unica religione dei parametri e impegnato nell'unica battaglia di contenimento del debito, prima e assoluta emergenza del continente. Ma l'emergenza può sostituire la politica, soppiantandola? E c'è qualcosa di vivo dietro i tagli, i sacrifici e i parametri europei?

La Repubblica ha condotto su questo tema una grande discussione pubblica, con gli interventi dei direttori delle grandi testate giornalistiche occidentali. Tutti, anche gli inglesi con il loro spirito critico sulla costruzione istituzionale e monetaria europea, hanno convenuto che si esce dalla crisi con più Europa, non con meno.

E tutti hanno denunciato la debolezza della politica che rende l'Europa, come dice il direttore del Times James Harding, "senza leadership e senza soluzione", un continente senza visione, senza coraggio, e dunque incapace di offrire ai cittadini traguardi simbolici che possano ricostruire una speranza oltre l'orizzonte preoccupante della fase che stiamo vivendo. Ma non solo.

Per gli osservatori europei i rischi sono molto maggiori di quelli che vediamo a occhio nudo. Le tre "A" che davvero ci interpellano (Asia, America, Africa) rischiano secondo Erik Izraelewicz, direttore di Le Monde, di marginalizzare l'Europa, troppo piccola e divisa per le nuove sfide globali. Per Arianna Huffington (Huffington Post) e per John Micklethwait, direttore dell'Economist stiamo diventando un continente "sadomasochista" che punta tutto sull'austerity, un'austerity che non farà altro che alimentare la recessione, perché come spiega Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur, il rimborso del debito non può fare le veci di una politica europea che non c'è.

Ma il vero allarme è quello per la democrazia. I direttori di due giornali tedeschi, Giovanni di Lorenzo della Zeit e Heribert Prantl della Sueddeutsche Zeitung pongono la questione apertamente: "Il pericolo dall'interno è la sfiducia verso la democrazia, la tendenza a chiedersi se è ancora il sistema più efficiente oppure no. A lungo termine la sfida dell'Europa è questa", dice di Lorenzo.

Se i governi nazionali e la Commissione pensano di difendersi da soli si sbagliano, aggiunge Prantl: "Per farcela hanno bisogno del sostegno delle società dei Paesi membri, della fiducia dei cittadini, perché senza questa fiducia qualsiasi ombrello resta instabile". Come dire che i saldi dell'auterità da soli non bastano. Anzi, avverte il direttore del Guardian Alan Rusbridger, se gli sforzi per la convergenza finanziaria "dovessere essere la causa dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti", si rischierebbero "reazioni nazionalistiche e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati".

È il problema posto infine del direttore del País, Javier Moreno: la legittimità delle scelte europee: "Con quanta legittimità si possono prendere decisioni per salvare l'Europa senza tener conto degli europei? È accettabile sacrificare la sovranità nazionale per salvare l'Unione Europea? Abbiamo accettato definitivamente l'idea che sia possibile governare senza chiedere ai cittadini il loro parere?".

Il nodo che viene al pettine è vecchio come l'euro. Un nodo di sovranità, di potestà, di responsabilità intrecciate e mai definitivamente risolte. La moneta unica è stata insieme un atto di fede e di coraggio, dunque un gesto politico che la storia economica del mondo moderno non aveva mai conosciuto, per di più nato nel cuore del Vecchio Continente dove nel Novecento erano nate le guerre e i totalitarismi, con le ideologie trasformate in Stati e partiti.

Ma l'euro non è diventato un principio costituente del nuovo ordine europeo, perché si è realizzato sotto la linea d'ombra della politica, riducendosi a strumento più che a soggetto, mentre ogni passo della sua costruzione fingeva ipocritamente di ignorare il successivo, non guardando al contesto.

Con la moneta unica l'Europa poteva trasformarsi da mercato a soggetto politico, e invece l'euro è nato politicamente e culturalmente sterile, come se fosse soltanto la proiezione geometrica dei parametri di Maastricht e poco più: parametri indispensabili per forzare la convergenza di base e l'uniformità tra i Paesi, ma sordi e ciechi per definizione, in quanto non contemplano la variabile decisiva della pubblica opinione e sono indifferenti ad un problema capitale delle democrazie occidentali, quello appunto della fiducia, della partecipazione e della condivisione, vale a dire del consenso.

La moneta è rimasta un "caffè freddo", come dicevano i tedeschi nel 2001, una moneta nuda perché è senza uno Stato che possa batterla, senza un esercito che sappia difenderla, senza un governo che riesca a guidarla, senza una politica estera che la rappresenti e soprattutto senza un sovrano capace di "spenderla" politicamente nel mondo.

E tuttavia quel gesto di coraggio è il punto simbolico e concreto più alto raggiunto dalla politica nel nostro continente, dopo le divisioni delle guerre. Oggi ci accorgiamo che l'inclusione del consenso è indispensabile, per non far perdere all'Europa e all'euro la fiducia degli europei. Ma dobbiamo anche dire che questa difesa improvvisa delle sovranità e delle autonomie nazionali davanti a Bruxelles e Francoforte nasconde un problema: l'incapacità di molti governi (e delle loro pubbliche opinioni, giornali compresi, va aggiunto) di rispettare le regole comuni che tutta l'Europa si era data, e che sono state per troppi anni disattese o addirittura aggirate.

Il problema è che tutto il sistema di governance dell'Occidente deve essere rivisto sotto l'urto della crisi. Per la prima volta scopriamo che la ripresa americana rischia di non trainare l'Europa, appesantita dal carico dei debiti sovrani, dalla miopia di un'austerity che non stimola la crescita: se il problema-opportunità della Cina trasformerà nel secondo mandato Obama in un presidente "asiatico" il nostro continente toccherà con mano un isolamento a cui non è abituato e soprattutto non è preparato, avendo abitato per decenni il concetto di Occidente senza una precisa idea di sé, e senza una politica estera conseguente.

Ma gli altri problemi sono tutti indigeni, nascono e crescono in Europa. Come regoleremo il nuovo rapporto di sovranità tra gli Stati nazionali oggi esautorati dall'Europa e le istituzioni comunitarie? Come armonizzeremo la leadership europea di fatto (Merkel) con quella di diritto (Barroso e Van Rompuy)? Come ci comporteremo con una Banca Centrale benedetta perché compra il debito pubblico degli Stati, ma sempre più soggetto attivo e diretto dell'Europa, senza avere alcuna rappresentanza dei cittadini? E infine, come risponderemo a quelle spinte nazionali e sociali (le parole sono proprio queste) che stanno riemergendo a destra e a sinistra davanti ad una politica europea che non sembra una politica, ma il bando di un sovrano a cui dobbiamo soltanto ottemperare?

La parola, per fortuna e come sempre, tocca alla politica, all'establishment europeo, alle cancellerie e alla cultura: anche se la dominante è la crisi, siamo in realtà all'inizio di un processo di fondazione istituzionale, e un nuovo europeismo può diventare l'unica ideologia superstite e utile, dopo la sconfitta di tutte le altre. Tocca alla classe dirigente europea, nel suo insieme, riprendere il coraggio incompiuto dell'euro e usare la moneta e il mercato, dopo un decennio di strumentalità neutra, come suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche: per riunire l'Europa, la politica e i cittadini in un destino condiviso del continente, in un'idea forza e in una visione. Che non può essere soltanto tagli e sacrifici. Una speranza europea è ancora possibile, anzi è l'unica arma contro la crisi.



Non siamo più un partito in cerca di un Dna


Pierluigi Bersani




Caro direttore,
rispondo volentieri alla sollecitazione di Eugenio Scalfari affinché mi pronunci sulla possibilità che il Pd sia ricondotto ad un Partito Socialdemocratico. Con tutta franchezza (e non facendo certo difetto ai democratici la pluralità di opinioni!) non conosco né documenti né intenzioni di dirigenti di Partito che pongano quel problema.


Nessuno discute di questo. Piuttosto si discute, da noi e in Europa, su come configurare i rapporti fra Partito Democratico e famiglia dei Socialisti Europei ai cui appuntamenti siamo invitati ed attivamente presenti senza esserne membri. Parliamo dunque di questo e parliamone avendo negli occhi le immagini del dramma greco, ben evitabile con una diversa politica europea, così da andare alla sostanza evitando quegli stucchevoli giochi di posizionamento che ogni tanto (sempre meno, per fortuna!) riemergono nel Pd.


Innanzitutto una premessa, che devo ad un elettore come Eugenio Scalfari. Dopo quattro anni siamo usciti dal problema identitario. Non abbiamo certo finito il nostro lavoro di costruzione né abbiamo corretto tutti i nostri difetti, ma non siamo più una ipotesi o un esperimento o un partito in cerca di Dna.


Siamo il primo partito italiano. Con l'aiuto di tutti, davvero di tutti, abbiamo fatto i conti con riflessi nostalgici e continuisti e con nuovismi vacui. Ci siamo appassionati alla sintesi di culture riformiste antiche e nuove, e vogliamo che vivano contaminandosi e non da separate in casa. Abbiamo ribadito il ruolo della politica riconoscendone tuttavia i limiti; vogliamo regole nuove nella politica e sperimentiamo con convinzione l'apertura alle espressioni civiche e al protagonismo dei cittadini. Siamo un Partito progressista, un Partito del lavoro, della Costituzione, dell'Unità della nazione. Un Partito profondamente europeista. Ormai esistiamo. Non possiamo più permetterci sedute psicanalitiche. Il nostro profilo sarà semplicemente il prodotto di quello di ciò che diremo e che faremo per l'Italia e per l'Europa, sostenendo i valori e gli interessi che vogliamo rappresentare.


In Europa siamo ad un tornante storico. Nei giorni scorsi il direttore del Times ha raffigurato plasticamente su Repubblica i dilemmi che abbiamo di fronte. In conseguenza della sbornia liberista si è radicata (non solo in Germania) una ideologia difensiva e di ripiegamento che è stata corteggiata dalla Destra ed estremizzata dai populismi. Questa ideologia ci sta portando tutti al disastro. Che la risposta a tutto questo possa venire solo da periodici vertici di Bruxelles, è una drammatica illusione. Serve una battaglia politica ed ideale, serve una voce sola dei progressisti che si faccia sentire in Europa, serve una piattaforma comune.


Ci stiamo lavorando con intensità, in particolare con la Spd di Gabriel con Francois Hollande.


Emergono ormai proposte concrete per una diversa politica europea. Le sosterremo assieme nella prossime campagne elettorali, a cominciare da quella francese. Ecco allora la domanda di prospettiva: quale soggetto puoi interpretare stabilmente una politica comune dei progressisti, a fronte di forze conservatrici europee che hanno mostrato di sapere ampliare le loro relazioni politiche?


Nel Parlamento Europeo c'è stata una evoluzione positiva: si è formato il gruppo dei Socialisti e dei Democratici Europei, che sta lavorando bene. Ci si deve impegnare per un esito simile sul piano politico: la costruzione cioè di un soggetto politico europeo aperto ai riformisti di diversa ispirazione. Non è forse geneticamente connaturata al Pd una simile proposta? Non è forse coerente con quello che diciamo a proposito di una organizzazione internazionale dei progressisti che oltrepassi le antiche famiglie e che raccolga i soggetti socialisti, democratici e liberali, di tradizione ambientalista o di ispirazione religiosa, che in tutto il mondo combattono il liberismo della destra conservatrice? Noi dunque opereremo in questa chiave.


Con due avvertenze. La prima: non cadremo nella pretesa ridicola di dare lezioni e terremo conto del peso reale delle forze progressiste in campo in Europa. La seconda: non avremo timore di contaminazioni per eccesso di vicinato. Ci affideremo con fiducia alla forza della nostra esperienza e delle nostre convinzioni. Chi volesse osservare la discussione nella Spd e nei verdi tedeschi o le recenti pratiche politiche dei Socialisti francesi potrebbe forse riconoscere qualche traccia delle nostre buone ragioni.

Di nuovo!


Questo articolo rappresenta in maniera plastica quello che è,purtroppo,lo stato dell'arte all'interno del Pd.
La cosa incredibile è che di questi editoriali ne verrano certamente degli altri,a significare che nulla cambia e che evidentemente tutti questi precedenti incredibili continuano a non insegnarci niente!



Il termometro e la febbre dell'elettore di sinistra

Concita De Gregorio


LE PRIMARIE sono un termometro, non serve farle sparire per eliminare la febbre. Non serve nemmeno cambiare le regole, inventarsi un termometro che segni sempre 36: se la febbre è a 40 bisogna curarla, diffidare di chi non la vede o la considera un complotto. Bisogna pretendere un altro medico, uno che abbia i farmaci e conosca i dosaggi. Le primarie non si perdono mai, che siano di partito o di coalizione, perché sono fatte per misurare il polso dell'elettorato, capire il suo stato d'animo e dare voce ai cittadini: che siano loro a dire da chi vorrebbero essere governati, e la gara cominci. La gara, va da sé, è quella che viene dopo: è la competizione con l'avversario politico. Le primarie sono fatte per trovare la persona giusta per vincere le elezioni. Sono la restituzione temporanea di una delega: scelto, insieme ai cittadini, il candidato ecco che il sistema dei partiti può attrezzarsi alla contesa, affrontare la campagna elettorale, risultare convincente e coeso, se neè capace, ed eventualmente vincere. In via del tutto teorica si può dare il caso che la prospettiva strategica sia al contrario quella di perdere le elezioni: in questa eventualità è senz'altro opportuno che un partito proponga per le primarie un candidato debole e poco amato e che provi ad imporlo sugli altri candidati di coalizione. Solo in questo caso se il suo candidato fosse sconfitto alle primarie e l'antagonista di altra matrice politica vincesse le elezioni il partito in questione potrebbe dire di aver perso. Avrebbe perso la chance di perdere.

Sarebbe come se il Pd, dopo aver proposto Morcone come candidato a Napoli, si fosse sentito sconfitto dalla vittoria di De Magistris. Come se, in via teorica.

Ma veniamo alla febbre, e parliamo di Genova.

Bisogna farsi alcune domande semplici. La prima è come proceda il Partito democratico nella scelta dei candidati. Quali sono i criteri? La fedeltà al leader, l'appartenenza a una corrente, la capacità di interdizione della corrente interna contraria, l'altezza, il sesso, la religione, il caso? Marta Vincenzi è sindaco in carica. Il partito romano e regionale, ramificazioni locali comprese, non l'ha mai sostenuta: imprevedibile, poco duttile, cattivo carattere. Unica voce in suo soccorso da Roma, nelle ultime settimane, quella di Ignazio Marino. Se il Pd avesse detto «ha mal governato» avrebbe avuto senso schierare un altro candidato, ma non l'ha fatto. Ha messo in campo Roberta Pinotti per sbarrarle il passo. Cattolica, parlamentare, sostenuta dall' establishment: Pinotti è rapidamente diventata "l'altra", come tale è stata vissuta da un elettorato stufo oltre il limite di guerre intestine, incertezze, ipocrisie, manovre sotterranee. Pochi giorni fa a Genova un alto dirigente democratico mi ha detto che si sarebbe trattato di una battaglia tra le due candidate, che Doria non aveva nessuna chance, «Doria prenderà il voto dei grillini». Anche di questa miopia bisognerebbe parlare finalmente chiaro: la stessa miopia che faceva prevedere anni fa ai dirigenti romani la vittoria di Boccia su Vendola in Puglia, la loro avversione a De Magistris e a Pisapia, la completa sottovalutazione di Zedda nel suk delle diatribe di partito sarde e, per parlare del futuro prossimo venturo, la ridicolizzazione del candidato Bachelet nelle primarie del Pd Lazio, la contrapposizione fra Borsellino e Faraone a Palermo. Anche a Palermo, il 4 marzo, ci saranno due candidati del Pd. A Monza, qualche settimana fa, ce n'erano quattro. Ma il punto non è neppure questo, come sembra credere Bersani, per quanto trovarsi di fronte a quattro candidati dello stesso partito possa far pensare gli elettori ad una scarsa coesione del medesimo, diciamo pure ad una certa ostilità interna. Il punto è la distanza fra chi prende queste decisioni e il suo elettorato. L'incapacità di leggere la realtà e di capirla. La difesa della ditta non può essere fatta a dispetto di chi quella ditta la deve sostenere. Uno su tre degli elettori del Pd votarono Pisapia a Milano, e sono gli elettori del Pd (ex elettori, elettori delusi, attuali elettori) ad aver votato Doria ieri. Non c'è nulla di antipolitico e di demagogico in questo, è il modo più chiaro che i cittadini hanno per parlare ai partiti (ai loro partiti) e dire che non è la politica che non vogliono, ma questa politica. Non i partiti, ma questi partiti. Di più chiaro ancora potrebbe esserci solo un disegno: cambi la classe dirigente, si faccia spazio ad una generazione nuova, si azzerino le guerre intestine di corrente, le rendite di posizione e di apparato. Ci si prepari a tornare alla politica, anche a livello nazionale, affidandosi alle competenze, alle passioni, ai talenti: l'Italia ne è colma, i partiti ne dispongono per quanto si ostinino a ignorarli, a trattarli da guastatori quando si fanno presenti. Diversamente, le accuse di antipolitica suoneranno sempre e solo come autodifesa del proprio posto da occuparsi a vita. Diversamente qualunque outsider forte della dote dell'essere "contro", dell'essere "altro" rispetto al sistema vincerà sempre più nettamente. Diversamente il Pd, che ha le primarie nel suo Dna - e non è un caso che di dna si torni a parlare oggi - farà la bestia da soma che offre alla coalizione gli spazi, le strutture, la logistica, il sostegno per far emergere candidati altrui. Che per l'Italia sarà anche un bene, per il partito moltissimo di meno. Dice oggi Giovanni Bachelet: «Un po' dei nostri dirigenti vengono da partiti nei quali contavano solo le tessere e questa storia delle primarie non l'hanno digerita fino in fondo. Questi dirigenti sentono che con le primarie stanno mollando ai cittadini un pezzo importante di sovranità e di potere, non vorrebbero mai averle inventate, se le vorrebbero rimangiare.

A loro piacerebbero primarie di incoronazione in cui prima i dirigenti decidono chi vince e poi si vota. Non piacciono, invece, primarie nelle quali prima si vota e poi si sa chi ha vinto».

È così, e rompere tutti i termometri del regno non servirà a nasconderlo. A un certo punto, immaginiamo, verrà il giorno in cui gli attuali dirigenti del Pd vorranno osservare la realtà anziché licenziarla come ostile: gli italiani hanno voglia di politica, e persino di farla dentro i partiti. È di questi partiti, di questa politica e delle sue usurate alchimie che diffidano. A dar loro ascolto la vera antipolitica, quella forcaiola e qualunquista, sarebbe sconfitta con la sola arma possibile: la passione per il bene comune, l'interesse di tutti sopra quello di pochi.

sabato 11 febbraio 2012

La nuova pietà!





Una donna velata di nero tiene tra le braccia un uomo della sua famiglia il cui corpo è stremato dall'orrore della repressione in Yemen. E' la foto con la quale Samuel Aranda, reporter spagnolo, ha vinto il World press photo 2011. E' stato il solo fotografo occidentale presente in Yemen durante le rivolte.

Koyo Kouoh, membro della giuria, ha spiegato: “Questa foto parla per un'intera regione. E' valida per lo Yemen, l'Egitto, la Tunisia, la Libia, la Siria... e mostra il ruolo che hanno avuto le donne, non solo in qualità di soggetti che si sono prese cura degli altri, ma anche in qualità di persone attive in movimento”.

mercoledì 8 febbraio 2012

Italialand











Questo lucidissimo editoriale di Miguel Gotor pubblicato ieri su "Repubblica"rappresenta,per come io la penso,l'immagine plastica della lontananza siderale che separa questo governo e i suoi rappresentanti dalla drammatica situazione economica che ogni giorno di più attanaglia i comuni cittadini italiani.





“Gli stereotipi dei tecnici”(Miguel Gotor).
07/02/2012 di triskel182

Ancora un inciampo comunicativo, l´ennesimo, da parte del governo sul tema del lavoro. Questa volta è toccato al ministro dell´Interno, Anna Maria Cancellieri, sentenziare che i giovani italiani pretenderebbero il posto fisso per continuare a stare «accanto a mammà».
Sorprende l´uso di stereotipi ormai consunti che sembrano staccati da un album di fotografie ingiallite in cui si racconta un´Italia che non esiste più da almeno trent´anni: quella col posto fisso che il padre trasmetteva al figlio al momento del pensionamento come un´eredità di famiglia.
E dove, per sentirsi “moderni”, bastava prendersela con i “figli mammoni”, sempre quelli degli altri, naturalmente, e intanto iscrivere i propri a “informatica” o a “ingegneria” così troveranno di sicuro un buon lavoro… Del resto, già a metà degli anni Ottanta si rideva guardando su Drive in le avventure di uno studente calabrese fuori corso “salito” a Milano per laurearsi alla «Bbbocconi!». È possibile che siamo ancora tutti fermi lì, come tanti fossili ideologici con i nostri tic e battute?
Eppure questo gusto per la caricatura vintage denuncia un distacco dalla realtà del mondo del lavoro di oggi – si direbbe una rimozione tecnocratica – che merita di essere approfondito. Anzitutto rivela una difficoltà a uscire dal proprio orizzonte sociale, che un tempo si sarebbe detto di classe: l´Italia che lavora, soprattutto quella giovanile, non è composta soltanto dai figli dell´alta borghesia urbana delle libere professioni o dell´accademia, per antichissima tradizione nel nostro Paese a vocazione cosmopolita ed esterofila. E non è formata solo da quanti vivono l´ebbrezza della mobilità e il gusto creativo per la flessibilità a Bruxelles, Ginevra o New York, tra studi di avvocati, organizzazioni internazionali e uffici di consulenza finanziaria, con stipendi e fringe benefits di qualche migliaio di euro.
Il valore di queste forme di lavoro è fuori discussione, ma non è condivisibile che il punto di vista di una parte minoritaria e privilegiata della società pretenda di trasformarsi in senso comune e il senso comune prima in caricatura e poi in sberleffo. Tutti quanti vorrebbero essere flessibili a quelle condizioni, ma chi governa ha il dovere di alzare la testa dai propri saperi libreschi o dalle eccezionali esperienze professionali che hanno caratterizzato la sua vita: e non soltanto perché un altro mondo è possibile, ma perché esiste per davvero al di fuori di quell´esclusivo recinto e la politica, anche quando è tecnica, ha il dovere civile di tenerlo bene in conto.
In secondo luogo, quest´atteggiamento sembra alimentato da una sorta di “yuppismo” di ritorno che lascia interdetti. Come se fossimo rimasti ibernati dentro gli anni Ottanta, ci risvegliassimo all´improvviso da un brutto sogno, e Berlusconi, con Sacconi e Brunetta, non avessero governato per otto degli ultimi dieci anni, partecipando al fallimento delle politiche neo liberiste su scala mondiale. Sono trent´anni che chi entra nel mondo del lavoro lo fa con contratti a tempo determinato e trascorre il periodo più importante della sua vita, quello della formazione e dell´entusiasmo, passando da un mestiere all´altro. Sono trent´anni che i giovani italiani hanno scoperto il precariato come unica dimensione della loro vita professionale, presente e futura. Altro che posto fisso!
Nel frattempo, i ragazzi del Sud hanno ripreso a emigrare, la disoccupazione giovanile è aumentata ovunque e i salari non superano i 1000-1200 euro, se e quando si ha la fortuna di averne uno. La maggioranza dei giovani che non hanno la fortuna di essere protetti dalla famiglia o dalla rendita, vive, in un periodo di crisi come questo, sulla soglia della povertà, a un passo da un baratro che non osa guardare e gli impedisce di progettare il futuro: basta un incidente, un errore, un divorzio con alimenti da pagare e ci si ritrova stritolati dall´angoscia di non farcela più. E non si parla solo di giovani proletari, che pure meritano la massima attenzione, ma anche dei figli della classe media, i primi a dover tollerare la frustrazione di avere prospettive di vita inferiori a quelle dei genitori. E non si può nemmeno ignorare che in intere regioni del Paese la pensione della nonna o l´aiuto dei genitori – quando questo è possibile – costituiscono una forma preziosa di welfare integrativo che supplisce a ben altre mancanze pubbliche e private.
Dopo il pesante intervento sulle pensioni, sulla questione della riforma del lavoro si gioca una partita decisiva per la durata di questo governo che non può tollerare maggioranze variabili o intermittenti. Servono dunque una maggiore sensibilità politica, culturale e civile giacché, quando si affronta un simile nodo, si toccano la speranza dell´uomo di realizzare e trasformare se stesso e la sua dignità più profonda come persona: e allora, sarebbero quanto meno auspicabili una maggiore attenzione comunicativa e meno battute che, in tempi difficili come questi e dopo i sacrifici chiesti ai lavoratori, non fanno ridere nessuno.

Da La Repubblica del 07/02/2012.