martedì 30 marzo 2010

Astensioni,le ragioni di un virus. Marcello Sorgi.

L’allarme per l’astensione era giustificato, la sorpresa perché si è verificata no. Che non ci fosse in giro una gran voglia di andare a votare, era chiaro da settimane, ed anche negli ultimi giorni, ciascuno di noi aveva potuto constatarlo, tra amici e conoscenti o in famiglia.

Siamo ancora lontani, tuttavia, (con il 63,6% di affluenza) dai livelli della Francia, in cui più della metà degli elettori ha disertato i seggi. E resta sorprendente, semmai, che dopo una campagna elettorale orrenda come quella a cui abbiamo assistito, due italiani su tre, malgrado tutto, si siano recati alle urne.

Anche a non voler sommare la rissa, con otto, dicasi otto, sentenze, emesse da magistrature di vari gradi e diversi tipi, per decidere sull’ammissione delle liste del Pdl a Roma e a Milano, e poi gli scandali giudiziari e le intercettazioni che hanno colpito entrambe le parti, e ancora la cancellazione degli spazi televisivi di informazione e di approfondimento dedicati alle elezioni, era abbastanza evidente per tutti che queste elezioni non avrebbero segnato la fine del mondo. Che importassero a Berlusconi e a Bersani, così come a Fini, Bossi e Di Pietro, d’accordo: «ma a noi ne viene veramente qualcosa?», si saranno chiesti gran parte dei cittadini, stanchi di sentirsi chiamare all’appello da partiti che hanno ormai problemi uguali e deficienze assai simili.

C’era inoltre una non trascurabile differenza tra le regionali di quest’anno e quelle del 2005: allora, con la legislatura 2001-2006 giunta agli sgoccioli, l’elettorato sapeva di poter esprimere un giudizio politico sull’operato del governo di centrodestra al potere da quattro anni. E la bocciatura fu talmente sonora che, pur avendo Berlusconi recuperato in extremis, l’anno dopo, nella campagna per le politiche, non riuscì a fare il miracolo e perse contro Prodi per ventimila voti.

Al contrario, stavolta – e la gente lo aveva capito benissimo -, con le regionali che cadono a meno di metà del percorso, e Berlusconi che ha ancora tre anni di tempo, fino al 2013, per raddrizzare l’andamento caracollante del suo governo, anche un forte successo dell’opposizione, che non c’è stato, non avrebbe potuto cambiare il corso delle cose.

In elezioni tutto sommato locali, a cui inutilmente, e con i peggiori argomenti, come s’è visto, s’è cercato di dare respiro nazionale, un peso, uno spostamento, potevano portarlo i candidati governatori, che andavano individuati con grande attenzione. Ma a questo, invece, i due maggiori partiti si sono applicati confusamente, o sulla base di calcoli politici lontani dai problemi e dai territori ai quali avrebbero dovuto essere collegati, e destinati pertanto a infrangersi contro la realtà.

Valgano, per tutti, due esempi: Mercedes Bresso, in Piemonte, e Rocco Palese, in Puglia.

Che a dispetto di una buona prova dell’amministrazione da lei guidata l’immagine della governatrice del Piemonte si fosse appannata, si sapeva già dall’anno scorso, quando si sentì parlare della possibilità che la Bresso fosse dirottata al Parlamento Europeo e al suo posto si candidasse Chiamparino. Per ragioni legate non solo alla sua storia politica, ma ai suoi più recenti atteggiamenti, anche in polemica con il suo partito, come quando aveva proposto la formazione di un Partito democratico del Nord, il sindaco di Torino sarebbe stato molto più adatto a fronteggiare la candidatura nuova, e per certi versi rivoluzionaria, del leghista Cota. Ma siccome ai vertici del Pd era considerato un rischio dargli un’ulteriore chance di crescita, l’ipotesi Chiamparino venne accantonata come un azzardo. Con il risultato, appunto, di incoraggiare l’astensionismo (i votanti in Piemonte sono scesi dal 71,4 al 64,3 per cento) e di farlo nuocere più nel campo del centrosinistra che non nell’altro.

Allo stesso modo, Berlusconi, con il suo solito fiuto, s’era reso conto subito che quella di Palese era la scelta di un brav’uomo, forse anche un discreto professionista del Consiglio regionale pugliese, ma per niente in grado di fronteggiare la candidatura carismatica di Nichi Vendola, che s’era imposta a dispetto perfino di un leader del Pd come D’Alema.

Il Cavaliere, preso dai suoi molti guai, non era poi riuscito a costruire un’intesa con Casini su un’indicazione concordata, e non aveva potuto accettare di far correre tutto il centrodestra dietro le insegne della Poli Bortone, scesa in campo con l’Udc, e i cui voti, sommati a quelli del Pdl (e sottratto l’astensionismo che ha visto i votanti calare dal 70,5 al 63,2 per cento), avrebbero potuto far cambiare di segno la Puglia.

Caso per caso, ragionamenti del genere, potrebbero essere applicati ad almeno sette delle tredici regioni in cui s’è votato: guarda caso, quelle decisive. S’è preferito invece credere che gli elettori, alla fine, avrebbero mandato giù qualsiasi minestra pur di non doversi buttare dalla finestra. Senza mettere in conto che tra i giochi possibili di un elettorato ormai piuttosto avvertito, e in genere (tolte le ultime settimane) piuttosto informato e sofisticato quanto a orientamenti politici, c’era anche la carta del non voto.

Berlusconi batte il non voto. Federico Geremicca

E così, nonostante l’astensione che avrebbe dovuto penalizzarlo, le inchieste che lo riguardano, l’esclusione della sua lista nella provincia di Roma ed una certa stanchezza nell’azione del governo, Silvio Berlusconi - un po’ a sorpresa rispetto alle ultimissime previsioni - ha largamente vinto anche questa tornata elettorale. Governava in due sole Regioni (rispetto alle 11 del centrosinistra) e da oggi ne amministra sei.

Conferma, come da pronostico, Lombardia e Veneto; guadagna, come scontato da settimane, Campania e Calabria; ma soprattutto conquista il Lazio - nonostante l’assenza di liste Pdl nella capitale - ed espugna il Piemonte, che da oggi diventa una Regione a trazione leghista.

Il Pd perde ma non frana, confermandosi partito-guida in sette Regioni. All’opposto, il Pdl mette nel carniere quattro nuovi governi regionali, ma ottiene un deludente risultato come partito, arretrando non solo rispetto alle europee di un anno fa ma anche alle elezioni regionali del 2005. E se i risultati dei due maggiori partiti in campo sono in qualche modo in chiaroscuro - e si prestano a esser dunque letti in maniera diversa (in ossequio alla nota filosofia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) - su un dato non sono possibili divagazioni: e il dato è l’avanzata - l’ennesima - della Lega di Umberto Bossi.

Il fatto che il «partito padano» non abbia sorpassato in queste elezioni il Popolo della libertà, è circostanza francamente marginale. Quel che infatti conta sul serio sono le percentuali bulgare raggiunte in Veneto, l’ulteriore crescita in Lombardia, l’insediamento con consenso crescente in Emilia (il Carroccio è il primo partito perfino nel Comune natale di Bersani...) e soprattutto il fatto che, con un proprio candidato, abbia portato il centrodestra alla conquista del Piemonte. Il partito di Bossi governa ora due tra le più importanti e popolose Regioni del Nord, è già ben insediato alla guida di centinaia di amministrazioni e ora si accinge a chiedere il governo di Milano, e forse non solo di Milano. La lunga marcia dei lumbard dunque prosegue: e in assenza di risposte chiare e forti da parte della politica «romana», non si vede cosa possa fermarla.

E non è solo il radicalismo leghista a uscir premiato dalle urne. Se si guarda infatti a quel che accade nell’altra metà del campo, è possibile osservare un fenomeno analogo. Il «partito giustizialista» di Antonio Di Pietro, infatti, non esce ridimensionato dal voto e, anzi, importa a livello regionale le alte percentuali raggiunte un anno fa alle elezioni europee; le liste «fai da te» messe in campo da Beppe Grillo vanno quasi ovunque oltre il 3%, con punte di oltre il 6% in Emilia; e non può esser senza significato il risultato importante (e senz’altro inatteso) ottenuto da un candidato «radicale» come Nichi Vendola in Puglia e il successo sfiorato da Emma Bonino nel Lazio. Del resto, non si capisce come possa destare sorpresa il fatto che, dopo un anno di pesante crisi economica e con i partiti tradizionali impegnati in furibonde risse su tutt’altro (dalle escort ai processi brevi e alle intercettazioni), oltre la metà degli italiani abbia deciso di non votare o di sostenere forze estreme o radicali.

E al di là di chi ha vinto di più o di chi ha perso di meno, è questa la scoraggiante fotografia che il voto di ieri consegna alle classi dirigenti del Paese: il livello di sopportazione, il livello di guardia, non è lontano. E se l’altissima percentuale di astensioni ne è una spia, sarebbe errato non considerarne un effetto anche quel 20% di consensi distribuiti tra partiti estremi (come la Lega) e movimenti radicali quasi personali (Di Pietro e Grillo). Chi ha memoria, infatti, non può non ricordare come la Prima Repubblica - al di là delle successive inchieste giudiziarie - cominciò a scricchiolare proprio sotto l’incalzare del fenomeno leghista...

E’ giusto, dunque, interrogarsi sul tipo di risposta che sapranno dare a questo evidente disagio i due partiti maggiori, e le dinamiche che il risultato elettorale potrebbe avviare tanto nella coalizione di governo quanto nel fronte dell’opposizione. Ipotizzare una crescita dell’ipoteca leghista sull’esecutivo è fin troppo ovvio: ciò che è ancora difficile da immaginare, invece, è il tipo di risposta che arriverà da Silvio Berlusconi. Così come nient’affatto scontate sono le mosse che deciderà di compiere Gianfranco Fini, sempre più insofferente verso l’ «egemonia» leghista sul governo e segnalato - un giorno sì e l’altro pure - come ormai in uscita dal Pdl. Dopo questo voto, insomma, molto potrebbe cambiare: e onestamente, alla luce di quanto visto negli ultimi mesi, sarebbe davvero opportuno che molto cambiasse...

Il referendum del Cavaliere.Massimo Giannini

NON servono i tortuosi giri di parole in uso nella Prima Repubblica. Appannato dagli scandali privati, ossessionato dai guai giudiziari, logorato da due anni di non-governo del Paese, Silvio Berlusconi è riuscito in qualche modo a vincere anche queste regionali. Lo ha fatto nell'unico modo che conosce, dall'epifanica "discesa in campo" del '94: trasformando la contesa elettorale in un altro, esiziale "referendum" sulla sua persona. Lo aveva detto lui stesso, alla vigilia di un test di medio-termine al quale si avvicinava con una ragionevole preoccupazione: "Il voto regionale è politico". Ha avuto ragione lui.

Non ha certo ripetuto il plebiscito del 13 aprile 2008, di cui anzi ha dilapidato tanta parte dei consensi. Il suo partito ha perso centinaia di migliaia di voti, sfiorando il 27% nelle regioni in cui si è votato: 4,5 punti in meno rispetto alle regionali del 2005, e addirittura 7 punti in meno rispetto alle politiche 2008. Quasi un tracollo, per il "partito del predellino", l'"amalgama mal riuscito" nel quale il co-fondatore Gianfranco Fini sopravvive con crescente imbarazzo. Ma pur con tutto il travaglio mediatico di questi ultimi due mesi, e con l'evidente affanno politico di questi due anni, il Cavaliere ha comunque vinto il referendum. Suo malgrado, verrebbe da dire.

Grazie alla Lega ha blindato il Nord, espugnando il Piemonte e spopolando in Veneto. Nonostante il malaffare e il Cosentino-gate ha fatto il pieno anche al Sud, strappando con margini bulgari la Campania e la Calabria. E a dispetto del basso profilo della Polverini e dell'assenza del simbolo alla provincia di Roma, ha conquistato anche il Centro, battendo nel Lazio un avversario di caratura nazionale come Emma Bonino. Al centrosinistra restano le briciole. A settentrione il piccolo presidio della Liguria di Burlando, nel Mezzogiorno la sorprendente enclave della Puglia di Vendola, e in mezzo il solito insediamento appenninico del vecchio Pci, dall'Emilia alla Toscana, dall'Umbria alle Marche.

Questo voto si può leggere in molti modi diversi. Si può decrittare in termini di milioni di cittadini "amministrati" da ciascuno dei due schieramenti. Oppure secondo la valenza "strategica" e politica delle singole regioni in cui hanno vinto l'uno o l'altro dei due poli. Oppure, ancora, in base alle "bandierine" piantate su ognuna delle 13 regioni in cui si è votato. Da qualunque punto di vista lo si osservi, il voto ci consegna un'Italia che vede la maggior parte dei cittadini governati anche a livello locale dal centrodestra, che è sbilanciata a vantaggio del centrodestra in tutte le principali macro-regioni, e che anche in termini di "bandierine" piantate sul territorio fotografa un centrodestra in forte recupero, dall'11 a 2 da cui si partiva al 7 a 6 a cui si è arrivati.

Per il governo è un risultato che va al di là di tutte le aspettative. Berlusconi ha pagato un tributo altissimo all'astensionismo, che si è avvicinato ai livelli francesi. Almeno un milione e mezzo di italiani non si è turato il naso dentro l'urna, ma ha preferito andarsene a respirare altrove. È un segnale chiaro di insoddisfazione verso la maggioranza. Ma lo è allo stesso modo anche per l'opposizione, che non ha beneficiato di alcun travaso di flussi elettorali, ma viceversa ha pagato a suo volta un dazio pesante al non voto. Ora si discuterà a lungo su questo crollo oggettivo dell'affluenza, sulle inevitabili riflessioni alle quali sarà chiamato l'intero ceto politico verboso, rissoso e inconcludente, sulla ricorrente pulsione antipolitica che ha nutrito il successo delle derive grilliste ed estremiste.

Ma per il centrodestra e per l'intero Paese il dato politico più clamoroso non è questo. È invece il trionfo della Lega, che ha compiuto la sua ennesima metamorfosi. Con la sorprendente vittoria piemontese il Carroccio ha sfondato un'immaginaria "linea del Ticino", ridisegnando il paesaggio politico della nazione. In Lombardia non c'è stato il "sorpasso", ma il "pareggio" dei voti con il Pdl ha un valore enorme, se si pensa che alle regionali del 2005 i lumbard avevano meno della metà dei voti dell'allora Cdl. Se a questo successo si sommano il trionfo di Zaia in Veneto e quello di Cota in Piemonte, e poi la pervasiva e costante "infiltrazione" lungo il confine tosco-emiliano, l'esito è inequivocabile.

Un centrodestra a trazione leghista quasi integrale ha messo in cassaforte tutto il Nord. Quello più dinamico e più capace di coiniugare localismo culturale e globalismo economico. Di fronte a questo risultato così netto il pur prezioso "avamposto" conservato dal centrosinistra in Liguria è davvero poca cosa. Da ieri è nata davvero la "Padania", che non è più un'astrazione ideologica partorita dalla mente fertile del Senatur, ma è già una formazione geografica scolpita nel perimetro delle regioni più ricche e produttive del Paese, e dunque una realizzazione politica perseguita e infine perfezionata da una classe dirigente totalmente immersa e integrata nel territorio.

Una nuova generazione di dirigenti leghisti ha cambiato l'abito politico di un partito che è sempre meno di lotta e sempre più di governo. La camicia verde si indossa ormai sotto la grisaglia grigia: nelle cerimonie pagane tra le valli alpine come nei consigli d'amministrazione delle fondazioni bancarie. In pochi anni siamo passati dall'illusione di una Lega "costola della sinistra" al paradosso di un Pdl "costola della Lega". Tutto questo, a dispetto delle dichiarazioni rassicuranti di Bossi, non potrà non avere effetti sull'equilibrio interno alla maggioranza, dalla richiesta di nuovi ministeri nell'eventuale rimpasto alla pretesa di candidare un leghista alle prossime comunali di Milano. Ma gli effetti riguarderanno forse l'intero sistema politico. Chi ne vuole una prova, legga le parole di Zaia: "Con questi risultati il bipolarismo è finito".

Per il centrosinistra, in chiave speculare, il dato politico più doloroso riguarda non solo la perdita del Piemonte al Nord, ma anche la bruciante sconfitta al foto-finish nel Lazio. Erano considerate da tutti le regioni chiave di questa tornata, e il Pd le ha cedute tutte e due. È una realtà su cui di dovrà ragionare a fondo. Soprattutto nel Lazio, dove alla candidatura della Bonino il centrosinistra è arrivato con un percorso a dir poco avventuroso, e il Pd si è acconciato più per necessità che per convinzione. Ha pagato anche questo, nell'urna, oltre all'anatema dei vescovi che, a tre giorni dalle elezioni, deve aver giocato un ruolo ancora una volta cruciale per le scelte di molti moderati, evidentemente non ancora "cattolici adulti". E poi c'è lo schianto in due roccaforti del Sud, la Calabria e soprattutto la Campania, dove non è bastato candidare uno "sceriffo" come De Luca per cancellare troppi anni di sfrontato strapotere del vicerè Bassolino.

Ora il Pd cerca nelle pieghe del voto qualche motivo di conforto. E in parte, legittimamente, lo trova. Il risultato dei "democrats" a livello nazionale non è disprezzabile: nel voto di lista oscilla tra il 26 e il 28%, insidia il primato al Pdl, e se segna una caduta forte rispetto al 34,1% delle politiche del 2008 riflette una flessione di appena un punto rispetto alle europee del 2009. Ma il "partito riformista di massa", se pure tiene, non fa breccia nel cuore degli elettori che vogliono resistere al berlusconismo. Lo prova l'astensionismo, che ha eroso i consensi del Pd anche nei luoghi in cui il risultato non era in discussione (Emilia, Marche e Umbria) dove Errani, Spacca e Marini hanno vinto con percentuali molto più basse rispetto alle precedenti tornate elettorali.

Ma lo prova, oltre alla performance di Di Pietro, anche l'exploit delle liste di Grillo, dove si sono presentate come in Emilia e in Lombardia. Un'emorragia grave, che la radicalizzazione della linea politica voluta da Bersani negli ultimi giorni di campagna elettorale non è bastata ad arginare. Non solo. Anche dove ha vinto, come in Puglia o in Liguria, il Pd deve ringraziare soprattutto l'Udc, che nonostante un risultato nell'insieme negativo per le ambizioni terzaforziste di Casini ha comunque drenato voti preziosi al centrodestra con le candidature di disturbo della Poli Bortone e di Biasotti. Per Bersani, e per la sua leadership, si impone un ripensamento profondo delle strategie: sia sul profilo del partito, sia sul fronte delle alleanze.

Ci sarà tempo per il regolamento dei conti, nel centrodestra come nel centrosinistra. Ma quello che importa, adesso, è capire come sarà riempito l'abisso che separa il Paese dalla fine di questa turbinosa legislatura. "Questo voto non cambierà nulla per il governo", aveva annunciato Berlusconi. Più che una previsione, una maledizione. Vengono i brividi, a immaginare altri tre anni come i due che sono appena trascorsi. C'è da sperare che la vittoria della Lega sia foriera di qualche novità positiva. È stato Bossi a dire che dopo il voto occorrerà ritessere il filo del dialogo tra i poli, tranciato di netto dalle intemerate del Cavaliere. Ed è stato Bossi a dire che adesso è lui "l'arbitro delle riforme". L'Italia, insomma, è nelle mani del Senatur. Il futuro prossimo del Paese dipende da un capo che, fino a qualche anno fa, predicava la secessione, urinava sul Tricolore e imprecava contro Roma Ladrona. Oggi rappresenta invece il nuovo "fattore di stabilità" di questo centrodestra, scosso dalle spallate destabilizzanti e dalle sfuriate eversive del Cavaliere. Persino questo estremo paradosso, ci riserva il lento e carsico declino della leadership berlusconiana.

Auguri a Gianmario Spacca

venerdì 12 marzo 2010

Un'altra?E' tuo zio.Concita De Gregorio

Il Cavaliere inesistente ha una tecnica formidabile: nella difficoltà e nella colpa, lungo l'antico cammino del negare l'evidenza (tipo: «Io con un'altra? Ti sbagli, in questa stanza non vedo nessuno») ha compiuto un geniale passo avanti. Non si limita a negare: afferma il contrario. («Quella che vedi nella stanza è tuo zio»). Lo fa con metodo, sfacciataggine, disprezzo dell'intelligenza altrui. Di per sé sarebbe poca cosa: basterebbe ogni volta mostrargli che no, vedi, non è mio zio. Il fatto rilevante, quello che si studierà nei libri di storia, è che milioni di italiani sono vittime del sortilegio, incapaci di vedere coi propri occhi e di dire: ma che sta dicendo, è il contrario. Quel che ne fa un pericolo pubblico è il disegno, scientifico e ad uso privato, che c'è dietro. Notissimo anche quello, per chi ne abbia memoria: era tutto scritto nel programma della loggia massonica P2 della quale Berlusconi era tesserato e che tanti vantaggi gli ha garantito. Dividere i poteri e indebolire la magistratura, zittire la stampa, conquistare l'egemonia televisiva. Infine - mi scuso per la sintesi estrema - alimentare tensione sociale, cercare deliberatamente l'incidente, provocare, aizzare le piazze. Era (è) il programma per un colpo di Stato: le modalità variano secondo le circostanze, il nostro è gelatinoso.
Ieri abbiamo avuto un saggio da manuale della tecnica descritta. Il capo del governo (mimando i pugni di Primo Carnera) ha detto che il Paese è in ripresa. La realtà è che in Italia ci sono più di due milioni di disoccupati, 307 mila sono nuovi. La cassa integrazione è cresciuta in un anno del 123 per cento, 98 milioni di ore solo a febbraio. Il Pil è diminuito del 5, la produzione industriale del 3. La pressione fiscale sul lavoro dipendente è del 44,4 per cento. Il paese è allo stremo: non tutto certo. La cricca sta benissimo. Il senatore Di Girolamo, applaudito dal Pdl al momento delle dimissioni, ha confessato ieri ai magistrati di aver avuto per sé 1 milione e 700 mila euro come ricompensa per aver favorito il riciclaggio dei soldi della 'ndrangheta. (A questo proposito il Cavaliere ha detto che «la sinistra ha inventato una tangentopoli che non esiste»). Parlando dell'osceno traffico sulle liste elettorali commesso dai suoi stessi emissari - ci sono i filmati, i verbali di polizia: chiunque può rendersi conto da sé - ha detto che «la sinistra sta tentando di fare una porcheria, un disegno ben pensato». Ha detto è lo zio, insomma. Di seguito le minacce: «Daremo una lezione», che all'indomani dello spettacolo offerto da La Russa è un messaggio almeno ambiguo. Lo chiarisce Maroni dal Viminale: rischio attentati sotto elezioni. Lo scandisce il fido Bondi: «È il clima giusto per un attentato». Un crescendo. È lo zio in compagnia dei cugini: io sono la vittima.
Il costante sovvertimento della realtà ha lo scopo di accendere gli animi e di distrarre dai problemi reali, quelli per cui oggi è proclamato lo sciopero generale. Viviamo in un paese dove, dice la Cassazione, «la tutela delle frontiere prevale sul diritto all'istruzione dei minori». Gli immigrati irregolari con figli a scuola se ne vadano, pazienza per i bambini. Il virus leghista dilaga: è giusto, sono negri, ci rubano il lavoro. Ecco, noi siamo qui. Ci meritiamo di meglio, davvero. Possiamo ottenerlo. Rompiamo l'incantesimo. A domani.

giovedì 11 marzo 2010

I trofei in vetrina. Concita De Gregorio

Al campionato mondiale di balle spaziali il sedicente statista di Arcore si è presentato in sella ad un panino volante e ha vinto in mondovisione mentre il suo ministro della Difesa due metri più in là in un rigurgito di gioventù aggrediva fisicamente un giornalista in conferenza stampa. Provate solo per un istante a immaginare la stessa scena alla Casa Bianca o all'Eliseo. Non può succedere in alcun luogo dell'orbe terracqueo con l'eccezione forse di alcuni paesi subequatoriali a sistema di governo tribale - in quel caso tuttavia non ci sono le tv satellitari a riprendere il capo tribù col gonnellino, di solito - o, certo, nelle dittature sebbene anche in questo caso sia piuttosto raro vedere il ministro in persona, della Difesa per giunta, che solleva per la giacca una persona arrivata lì con la sola intenzione (legittima, prevista e si suppone desiderata: si chiama conferenza stampa per questo) di fare una domanda. Normalmente il ministro - nella dittatura - dà un'occhiata al gorilla e costui interviene, meglio se in un momento di distrazione generale. Il primato del mondo spetta oggi dunque all'Italia, povera quest'anno di Oscar e di medaglie olimpiche: una rivincita, in un certo senso. Il primatista si è aggiudicato anche il trofeo minore di ribaltamento di frittate, specialità della tradizione popolare indigena, premio ottenuto addirittura sovrappensiero perché - mostra il replay - qualcuno continuava a disturbarlo passandogli biglietti da tergo.
C'è pochissimo da ridere, in realtà. Lo si fa un po' per pudore verso chi ci guarda (nella speranza di suscitarne l'attenzione, comunque: ehi, comunità internazionale, siamo qui) un po' per timore che gridare troppo al lupo crei assuefazione, meglio ogni tanto cambiare registro così il pubblico da casa sta più attento. Raccontare questa storia precisando cosa sia vero e cosa no è diventato impossibile - Milione e Palloni, Carlomagno, persino i nomi remano contro - senza essere trascinati dal campione del mondo nel suo stesso gioco. Il quale, per inciso, sembra essere quello - antichissimo - di creare tensione per distogliere dalla perdita di consenso. Quando il primatista è in difficoltà spara sempre a sorpresa: un razzo multicolore così tutti fanno oooh. Anche la tecnica, quella della provocazione, è vecchio stile. Cerchiamo di restare composti, di non cadere nel tranello. Mentre Milione anziché essere esposto al pubblico ludibrio continua a frequentare come intimo il Palazzo (sarai senatore, gli ha promesso il campione del mondo) altre cose nei dintorni succedono: il partito del fare non riesce a trovare una data per la manifestazione di piazza, sono tutte già prese, ma con la mano sinistra dà il via libera al legittimo impedimento che consente al primatista di evitare l'ostacolo del tribunale. Il suo governo accorcia i termini della cassa integrazione incurante dell'unico vero reality in corso, quello dei cassintegrati all'Asinara. Il Csm dice che la democrazia è a rischio e l'Italia intera si mobilita per la scuola pubblica, leggete la storia di Francesca che a 53 anni rischia di andare in pensione da precaria. Poi preparatevi per sabato, che anche se piove ci si vede lì. È col voto che li manderemo a casa, a lustrare i loro trofei spaziali e riporli in vetrina.

lunedì 8 marzo 2010

Concita De Gregorio

06/03/2010 22:08
Umiliati gli onesti
Il partito del fare e del malaffare, del fare un po' come gli pare - dell'abuso e del condono, del sopruso e del perdono, della cricca che sono - ha digrignato i denti e sfoderato braccia tese, ha minacciato mostrando la bava, «non ci fermeremo davanti a niente», poi ha fatto la voce sottile e il pianto da vittima quando del danno era artefice. Ha infine preteso, battendo i pugni, di cambiare le regole in corsa. Prima della Costituzione (articolo 72, nessun decreto in materia elettorale) ha infranto, gettandolo a terra tra risa di disprezzo, quel che resta del senso dello Stato. Ha insultato milioni di persone per bene che vivono ogni giorno nel rispetto delle regole pagandone il prezzo. Li ha - ci ha - resi ridicoli, sudditi a capo chino di un tiranno. Costoro, le persone per bene, sono furibonde ed hanno ragione: chi sta in fila a affoga tra le carte per un permesso di soggiorno, un'iscrizione a scuola, un concorso, un bollo scaduto, il rinnovo di un contratto, una concessione edilizia avrà da oggi la possibilità di sanare per decreto irregolarità burocratiche e ritardi? Certo che no. Eppure ciascuna di queste regole da rispettare corrisponde ad un diritto. Il diritto alla cittadinanza, all'istruzione, al lavoro, alla casa. Si potrà dire, da domani, che dovendo scegliere tra un ritardo nell'iscrizione a scuola e il diritto ad andarci prevale il secondo? No. Chi ritarda di mezz'ora sarà escluso. L'elasticità vale solo per chi può imporla con l'abuso. Dunque gli italiani onesti sono furenti: se fosse accaduto alla sinistra avremmo avuto un decreto del governo? Difficile. Pagheranno una multa i ritardatari come si paga la mora sulle bollette? Non sembra proprio. La regola vale per il deboli, l'arbitrio per i forti. Forse Milioni quello del panino è stato radiato dal Pdl per manifesta incompetenza? No, lo si è visto anzi in queste notti dalle parti di Palazzo Chigi. Dunque era un disegno, l'ennesima furbizia per alzare fumo? Che triste giorno, il 5 marzo. Un nuovo 8 settembre, scriveva ieri Alfredo Reichlin. «Fino a che punto siamo consapevoli che l'Italia è arrivata all'appuntamento con la storia?». Ecco, lo siamo?
Il presidente della Repubblica ha agito, si deduce dalle sue parole, secondo la logica del male minore: tra i due beni - il rispetto delle norme e il diritto dei cittadini a votare - ha scelto il secondo. Una scelta di quelle in cui si perde comunque. L'astuta truffa - il quesito del premier - era questo: o la democrazia o la legge. Ma la democrazia e la legge sono la stessa cosa, solo la banda di governo crede di no. Napolitano ha agito anche per timore delle conseguenze possibili: chiede che «tutti si rendano conto» dell'acuirsi di tensioni «non solo politiche ma istituzionali». Abbiamo titolato, l'altroieri, «Gulp di stato». Oggi possiamo dirlo in chiaro: colpo di stato, è questo il pericolo. Siamo sull'orlo e adesso tocca a noi. Spiazziamoli. Non sbagliamo la mira. Non cadiamo nel tranello, di nuovo, di assegnare ad altri - peggio che mai ad uno solo - compiti, colpe, responsabilità. La storia è nelle nostre mani e si cambia in un solo modo: non coi decreti ma col voto. Spiazziamoli, sì. Scendiamo in piazza e saremo noi a umiliarli: col voto delle persone oneste. Sono o no la maggioranza del Paese, annidate in tutti i partiti? Vediamo. Contiamole

domenica 7 marzo 2010

Dedicato a tutte le donne

LA SCHEDA. Ecco che cosa c'è nei 3 articoli del decreto
che dovrebbe essere pubblicato oggi dalla Gazzetta Ufficiale

Timbri irregolari e prove postume
la sanatoria del Pdl



ROMA - Eccolo il decreto legge «interpretativo» scritto per salvare la candidatura di Roberto Formigoni in Lombardia e la corsa del Pdl a Roma. Il testo per il quale la maggioranza ha vissuto giorni di panico, è andata al muro contro muro con l´opposizione e ha febbrilmente mediato con il Capo dello Stato. Poche righe che non spostano la data delle elezioni e, per il ministro degli Interni Roberto Maroni, non cambiano la legge elettorale né riaprono i termini, ma si limitano a dare una bussola ai tribunali impegnati a decidere sui ricorsi degli esclusi eccellenti. «Non decide il governo chi corre, ma aiutiamo il Tar ad applicare la legge serenamente e in modo corretto», sempre Maroni.

L´introduzione di carattere generale prevede che il diritto all´elettorato attivo e passivo è preminente rispetto alle formalità. O, per dirla con il premier Berlusconi, «restituisce il diritto al voto agli elettori». Il secondo passaggio, invece, concede ventiquattro ore di tempo, a partire dall´accettazione delle liste, per sanare le eventuali questioni di irregolarità formale. Righe scritte su misura per Formigoni: prevedono che la veridicità delle firme e la loro autenticazione non siano inficiate dalla presenza di problemi di forma, come la non leggibilità del timbro dell´autorità autenticante, o dei dati relativi alla sua qualifica o al luogo.

Infine, l´ultima parte rimette in ordine le cose per il Pdl laziale: prevede che i termini orari per la presentazione delle liste sono rispettati con «il comprovato ingresso nei locali del competente tribunale o Corte d´appello, entro l´orario previsto, dei delegati incaricati della presentazione delle liste». E se anche con l´orario di ingresso rispettato, per un motivo qualsiasi non fosse stata effettuata la consegna effettiva alla cancelleria di liste e documentazione (vedi Pdl romano) la situazione può essere sanata «entro 24 ore».

Infine una norma transitoria - e il lavoro per salvare il centrodestra è completo - stabilisce che solo ed unicamente per quanto riguarda le elezioni regionali che si terranno in Lazio e Lombardia - il conto alla rovescia per le sanatorie non parte dal momento del deposito delle liste, ma da quello di attuazione del decreto. Insomma, dalla sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale salvo sorprese prevista per oggi
MAPPE
La nostalgia dei vecchi partiti

di ILVO DIAMANTI


Non sappiamo come finiranno le prossime elezioni regionali. Sappiamo, però, che sono cominciate malissimo. E, prima ancora del voto, conosciamo già il nome degli sconfitti. I partiti. Nelle democrazie occidentali, compresa l'Italia, sono gli attori politici attraverso cui si è realizzata la democrazia rappresentativa. Anche dopo che la politica si è personalizzata e mediatizzata.
Perché i partiti organizzano e orientano l'azione degli eletti nelle istituzioni rappresentative. Perché, prima ancora, partecipano alle elezioni, presentano liste e selezionano i candidati. Lo stesso Berlusconi, per entrare in politica, ha dovuto fondare un partito personale. E lo ha allargato, nel 2007, annettendo An a Fi. Per inseguire il centrosinistra, dove, dopo dieci anni e oltre di esperimenti e discussioni, i Ds e la Margherita si erano alfine riuniti nel Pd.


LE TABELLE

Un progetto ancora incerto, come abbiamo già scritto nelle settimane scorse. Il Pd. Un partito senza fissa dimora. Incapace di imporre e perfino proporre candidati propri in regioni importanti, come la Puglia e il Lazio (senza nulla eccepire sulla qualità di Vendola e della Bonino. Anzi). Incapace di indicare e affermare una strategia comune di alleanze. Tuttavia il Pdl, il primo partito per consensi elettorali e per peso parlamentare, ha fatto molto peggio.

Non era facile, ma ci è riuscito. Si è dimostrato un non-partito. O, almeno, un partito con-fuso. Frutto di una fusione incompiuta e mal riuscita. Fi e An: continuano ad agire come corpi separati. Tra loro e al loro interno. Al punto che nel Nord la Lega - l'unico partito vero - ha imposto i propri candidati in due regioni importanti: Piemonte e Veneto. Quest'ultima: una roccaforte. Mentre in Lombardia si è auto-imposto Formigoni. Leader non del Pdl, ma del mondo cattolico che si riferisce a Cl e alla Compagnia delle Opere. Altrove, come in Puglia e in Campania, il Pdl ha stentato a trovare candidature valide. Al punto da non riuscire a rispettare termini e regole di presentazione delle liste. Non per colpa del Pd, dei comunisti, dei magistrati. Di Repubblica. O di Santoro, Di Pietro, Grillo, Pannella. Ma per colpa esclusivamente propria. Dell'organizzazione precaria che lo caratterizza alla base. Dei conflitti tra frazioni e fazioni. Personali, locali e di interesse. A Roma, nel Lazio, in Lombardia (nonostante le differenze significative tra i casi). Il partito che governa l'Italia, in questa occasione, si è mostrato approssimativo, povero di professionalità e professionismo. Oltre ogni attesa.

Così non sorprende - e come potrebbe ? - l'ostilità che oggi avvolge, come una nebbia densa, i partiti. Guardati con fiducia da meno dell'8% degli italiani (Atlante politico di Demos, febbraio 2010). Insomma: peggio delle banche e della borsa. Si tratta, peraltro, del dato più basso degli ultimi 10 anni, durante i quali non hanno mai goduto di grande popolarità.

I partiti a cui si riferiscono gli italiani, va precisato, sono quelli odierni. Tanto deprecati e deprecabili, agli occhi dei cittadini, da far loro rivalutare il passato. Il 45% degli italiani, infatti, considera gli attuali partiti peggiori di quelli della prima Repubblica. Solo il 20% - meno della metà - migliori. Il giudizio più positivo sui partiti di oggi è espresso dal centrodestra e in primo luogo dagli elettori del Pdl. Curiosamente, visto che proprio il Pdl ha esercitato, da qualche anno, un'opera di rivalutazione della prima Repubblica. Parallela alla svalutazione di Tangentopoli. Definita un complotto ai danni delle classi e dei partiti di governo, per favorire la sinistra. L'elogio dei partiti della seconda Repubblica espresso dagli elettori del Pdl - e della Lega - suona, per questo, come un auto-riconoscimento. E serve a rammentare come proprio loro siano stati i maggiori beneficiari del vuoto politico prodotto da Tangentopoli.

La rivalutazione dei partiti della prima Repubblica appare molto estesa. A destra come a sinistra. Il 45% degli italiani, oggi, giudica positivamente la Dc, il 35% il Pci, il 32% il Psi. L'apprezzamento nei loro confronti si è rafforzato sensibilmente negli ultimi 5 anni: di circa il 9 punti percentuali verso la Dc e il Psi; di quasi il 4 verso il Pci. Probabilmente, anzi: sicuramente, i partiti maggiori della prima Repubblica sono più apprezzati oggi che al loro tempo. Quando esistevano veramente.

D'altronde, gli italiani hanno sempre votato - in larga misura - "contro" prima ancora che "per". Un popolo di "anti": comunisti, capitalisti, clericali. Però mai, come oggi, il sentimento antipolitico e partitico degli italiani era apparso tanto sviluppato ed esteso. In modo così generalizzato. Al punto da suscitare un'onda impetuosa di rimpianto verso un passato fino a ieri deprecato. Naturalmente, più che per merito dei partiti di un tempo è per colpa di quelli che li hanno sostituiti. Di cui il Pdl costituisce l'idealtipo. E Forza Italia il riferimento esemplare. Il modello inventato da Berlusconi e imitato da tutti. Oggi suscita delusione. E nostalgia. In senso etimologico: "malattia del ritorno". Evocazione dolorosa di un passato idealizzato, a causa delle ombre del presente. Per citare Odon Vallet: "la nostalgia è l'oppio dei vecchi". Per questo è tanto diffusa, oggi. Soprattutto fra i più vecchi. In questo paese di vecchi, dove la seconda Repubblica è invecchiata da tempo, insieme ai partiti - sedicenti - nuovi che l'hanno guidata. Insieme alla nostra democrazia. Insieme a noi, che siamo invecchiati attraversando entrambe le repubbliche, senza trovare un approdo sereno.
Quel Pasticciaccio di Palazzo Chigi

di EUGENIO SCALFARI


CI SONO, nel decreto legge varato ieri notte dal governo, un pregio e una quantità di difetti. Ezio Mauro, nel suo editoriale di ieri ne ha già dato conto. Proseguirò sulla stessa strada da lui aperta e nelle considerazioni svolte dall'ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Ma c'è anche e soprattutto un indirizzo politico che emerge da quel decreto, che suscita grandissima preoccupazione.

Il pregio è d'aver dato al maggior partito di maggioranza e ai suoi candidati la possibilità di partecipare al voto regionale in Lombardia e nel Lazio, così da esercitare il diritto elettorale attivo e passivo. Quest'esigenza era stata sottolineata non solo dagli interessati ma anche dai partiti dell'opposizione. Bersani, Di Pietro, Casini, avevano dichiarato nei giorni scorsi di voler vincere disputando la loro eventuale vittoria "sul campo e non a tavolino". Il decreto consente che questo avvenga ed infatti avverrà se i tribunali amministrativi della Lombardia e del Lazio ne ravviseranno le condizioni sulla base del decreto già operativo nel momento in cui quei due tribunali si pronunceranno. Spetta infatti a loro - e non al decreto - stabilire se le prescrizioni previste saranno state correttamente adempiute.

I difetti - che meglio possono essere definiti vere e proprie prevaricazioni - sono molteplici. Alcuni di natura politica, altri di natura costituzionale. Cominciamo da questi ultimi. Esiste una legge del 1988 che vieta ogni decretazione in materia elettorale.

Ora è chiaro che un decreto interpretativo (come è stato definito quello di ieri) non può contravvenire ad una legge vigente e sostanzialmente abrogarla senza con ciò produrre un'innovazione. Cessa pertanto la natura interpretativa che risulta essere soltanto un'appiccicatura mistificante, e riappare invece un intervento che modifica anzi contraddice norme vigenti sulla stessa materia.

C'è un'altra questione assai delicata: l'intera materia elettorale riguardante le Regioni è di spettanza delle Regioni stesse. Le stesse leggi elettorali in materia di procedura differiscono in parecchi punti l'una d'altra. E' quindi molto dubbio che il governo nazionale possa entrare con una sua interpretazione su leggi che non sono interamente di sua diretta spettanza. Interpretazioni di tal genere spetterebbero ai consigli regionali i quali tuttavia sono scaduti in attesa del rinnovo elettorale.

Su tutte queste questioni saranno certamente proposti ricorsi e quesiti alla Corte. Ove questa li accogliesse mi domando quale sarebbe la validità e gli esiti degli scrutini del 29 marzo. Il Presidente della Repubblica aveva giustamente definito "un pasticcio" la situazione venutasi a creare. Purtroppo il decreto di ieri non risolve affatto il pasticcio anzi per molti aspetti lo aggrava.

Quanto alla scorrettezza politica, la più grave riguarda la mancata condivisione della sanatoria decretata dal governo con le forze d'opposizione. Il Presidente della Repubblica ne aveva ripetutamente sottolineato l'opportunità ed anzi aveva condizionato ad esso ogni statuizione. Il suo rifiuto dell'altro ieri ad autorizzare un decreto che modificasse le procedure elettorali ad elezioni in corso era motivato anche da questo.

Non solo la condivisione è mancata ma il premier ed i suoi collaboratori senza eccezione alcuna hanno incolpato l'opposizione d'aver reso impossibile l'esercizio del diritto elettorale. In particolare questa responsabilità dell'opposizione si sarebbe verificata a Roma, dove militanti radicali e di altri partiti avrebbero fisicamente bloccato i rappresentanti della lista Pdl impedendo loro di varcare la soglia dell'ufficio elettorale del tribunale.
Questa circostanza, sulla quale i radicali hanno già sollevato denuncia di calunnia, dovrà comunque esser provata dinanzi al Tar del Lazio nell'udienza di domani. E' comunque grave un'inversione così macroscopica delle responsabilità, sulla base della quale i colpevoli vengono condonati e gli innocenti puniti.

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Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha definito il decreto del governo come "il male minore", distinguendosi ancora una volta con queste parole dalla linea di Berlusconi. Ma nel caso in questione Fini ha sbagliato per difetto. Il decreto interpretativo non è un male minore. E' un male identico se non addirittura peggiore d'un decreto innovativo.

Anzitutto non si può dare un'interpretazione diversa e così estensiva ad una procedura elettorale con effetto retroattivo. L'interpretazione, se retroattiva, diventa infatti un vero e proprio condono ed un condono è quanto di più innovativo vi sia dal punto di vista legislativo.

Ma c'è di peggio. Poiché nel diritto pubblico un precedente produce una variante valida anche per il futuro, questo precedente potrà essere invocato d'ora in poi per condonare qualunque irregolarità procedurale a discrezione del governo. Non bastava il sistema delle ordinanze, immediatamente esecutive e sottratte ad ogni vaglio preventivo di costituzionalità; ad esso si aggiungerà d'ora in poi il decreto interpretativo facendo diventare norma l'aberrante principio che la sostanza prevale sempre sulla forma, come dichiarò pochi giorni fa il presidente del Senato, Schifani, dando espressione impudentemente esplicita ad un principio eversivo della legalità. Esiste nella nostra lingua la parola "sprocedato" per definire una persona scorretta che si comporta in modo contrario ai suoi doveri. La esse è privativa, sprocedato significa appunto "senza procedura".

E bene, stabilire la prevalenza della sostanza sulla forma in materia di procedura non ha altra conseguenza che legittimare l'illegalità permanente nella vita pubblica, o meglio: far coincidere la legalità con il volere del capo dell'esecutivo, cioè stabilire la legittimità dell'assolutismo.

Un decreto interpretativo con potere retroattivo realizza questo gravissimo precedente. Non a caso Berlusconi lo ha preteso facendo balenare ripetutamente la minaccia di sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra il governo e il Capo dello Stato. Gianni Letta è stato il "missus dominicus" di questo vero e proprio ultimatum e - a quanto si sa - l'ha fatto valere con inusitata decisione. Questi gentiluomini del Papa ci stanno dando molte sorprese da qualche giorno in qua sui più vari terreni. Un Letta in armatura e lanciato a passo di carica non l'avevamo ancora visto anche se da tempo sotto il suo guanto appariva sempre più spesso l'artiglio di ferro.

Male minore, presidente Fini? Purtroppo non sembra.

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Che fare? Chi ne ha titolo rappresenti al Tar i problemi che sono di sua competenza per quanto riguarda il giudizio di applicazione del decreto. (Il Tar lombardo ha già concesso a Formigoni la sospensiva dell'ordinanza dell'Ufficio elettorale e deciderà definitivamente nei prossimi giorni). E chi ha titolo sollevi i problemi di costituzionalità dinanzi alla Corte.

Le sortite "sprocedate" di Di Pietro nei confronti del presidente della Repubblica sono da respingere senza se e senza ma. Nella situazione data il Capo dello Stato è stato messo in condizioni di necessità e ha dovuto dare la precedenza all'esercizio del diritto elettorale, riuscendo anche a far togliere alcune disposizioni transitorie che riservavano l'applicazione del decreto alle sole Regioni di Lombardia e Lazio. Si sarebbe in quel caso creata una diseguaglianza tra gli elettori di fronte alla legge recando così un vulnus costituzionale di palese evidenza. Resta il pasticcio ed un precedente che accelera la trasformazione dello Stato dalle regole all'arbitrio del Sovrano. Gli elettori giudicheranno anzitutto i candidati e i programmi da essi sostenuti. Ma sarà bene che riflettano anche su questi aspetti politici di involuzione democratica. Non sarà un referendum pro o contro Berlusconi, ma certamente l'occasione per scegliere in favore di leggi valide per tutti o in favore delle "cricche" che hanno occupato le istituzioni usandole a favore dei loro privatissimi interessi. L'occasione per cambiare questo andazzo arriverà tra venti giorni. Errare è umano, ma perseverare nell'errore non lo sarebbe.

sabato 6 marzo 2010

Abuso di potere.

di EZIO MAURO


POICHE' «la sostanza deve prevalere sulla forma», secondo il nuovo comandamento costituzionale berlusconiano recitato dal presidente del Senato Schifani, il governo della Repubblica ha sanato ieri con una legge di comodo gli errori commessi dal Pdl, che avevano portato all´estromissione di Formigoni dalle elezioni in Lombardia e della lista berlusconiana a Roma.
Questo gesto unilaterale compiuto dalla maggioranza a tutela di se stessa può sembrare una prova di forza. È invece la conferma di un´atrofia politica di base e di vertice, che somma un vizio finale alle colpe iniziali, rivelando il vero volto che nei sistemi democratici assume la forza quando è senza politica, e fuori dalle regole che la disciplinano e la governano: l´abuso di potere.

Non c´è alcun dubbio che una competizione elettorale senza il principale partito è anomala, e il problema riguarda tutti i concorrenti (non solo gli esclusi), perché riguarda il sistema intero e il diritto dei cittadini di poter esercitare compiutamente la loro scelta, con tutte le parti in campo. Ma se il problema interpella tutti, le responsabilità di questa anomalia - che in forme diverse si è verificata a Roma e a Milano, con firme false e termini per la presentazione delle liste non rispettati - sono di qualcuno che ha un nome preciso: il Pdl. Non c´entra nulla il "comunismo", questa volta, e nemmeno c´entrano le "toghe rosse". È lo sfascio della destra che produce il suo disastro, perché quando la locomotiva della leadership non funziona più, e non produce politica, tutti i vagoni si arrestano, o deragliano senza guida.

Ora chi chiede a tutti i concorrenti di farsi carico del problema nato in Lombardia e nel Lazio, con un gesto di responsabilità politica condivisa nei confronti dell´avversario e del sistema, non ha mai nemmeno pensato di assumersi preliminarmente le sue responsabilità, ammettendo gli errori commessi, chiamandoli per nome, prendendosi la colpa. Non è venuto in mente al leader di dichiarare che si attendono le pronunce delle Corti d´Appello e dei Tar chiamati a dirimere con urgenza i due casi, e deputati a farlo, nella normalità democratica e istituzionale, e nella separazione dei poteri.

Nulla di tutto questo. Soltanto lo scarico delle responsabilità sugli altri, la tentazione della piazza, la forzatura al Quirinale, l´altra notte, con il Presidente Napolitano, nel tentativo di varare un decreto che intervenisse direttamente sulla normativa elettorale, riaprendo i termini ad uso e consumo esclusivo del partito berlusconiano. Quando il Capo dello Stato si è reso indisponibile a questa ipotesi, la minaccia immediata di due Consigli dei ministri, convocati e sconvocati tra la notte di giovedì e la mattinata di ieri. Una giornata in affanno, per il Premier, anche per il fermo "no" che ogni sua ipotesi di forzatura trovava da parte dell´opposizione, da Bersani a Di Pietro a Casini. Infine, l´abuso notturno del decreto, mascherato dalla forma "interpretativa", che va a leggere a posteriori nella mente del ministro le intenzioni di quando dettò le norme elettorali di procedura, ritagliando a piacere una soluzione su misura per gli errori commessi dalla destra a Roma e a Milano.

Le norme elettorali sono materia condivisa e indisponibile per una sola parte in causa, soprattutto quando opera a palese vantaggio di se stessa, sotto gli occhi di tutti, e per rimediare a quegli stessi suoi errori che violando le regole l´hanno penalizzata nella corsa al voto. Intervenire da soli, ex post, con norme retroattive, a meno di un mese dalla scadenza elettorale, scrivendo decreti che ricalcano clamorosamente gli sbagli commessi per cancellarli, è un precedente senza precedenti, che peserà nel futuro della Repubblica, così come pesa oggi nel logoramento delle normative, nella relativizzazione delle procedure, nella discrezionalità degli abusi, sanati a vantaggio del più forte. In una parola, questo abuso pesa sulla democrazia quotidiana che fissa la misura di se stessa - a tutela di ognuno - in passaggi procedurali che valgono per tutti.

Al Presidente del Consiglio non è nemmeno venuto in mente di consultare direttamente le opposizioni. Di chiedere un incontro congiunto con i suoi capi, di presentarsi dicendo semplicemente la verità, e cioè denunciando gli errori compiuti dal suo schieramento, assumendosene interamente la responsabilità come dovrebbe fare un vero leader, chiedendo se esiste la possibilità di un percorso condiviso di comune responsabilità per rendere la competizione completa e reale dovunque, nell´interesse primario dei cittadini elettori. Tutto questo, che dovrebbe essere un elementare dovere istituzionale e politico, è tuttavia inconcepibile per una leadership eroica e monumentale, che non ammette errori propri ma solo soprusi altrui, mentre prepara abusi quotidiani.

Quest´ultimo, con la falsa furbizia del decreto "interpretativo" (la legge da oggi si applica solo per gli avversari, mentre per noi stessi la si può "interpretare", accomodandola), completa culturalmente la lunga collana di leggi ad personam, che tutelano la sacralità intoccabile del leader, sottraendolo non solo alla giustizia ma all´uguaglianza con suoi concittadini. Anzi, è l´anello mancante, che collega la lunga serie di normative ad personam al sistema stesso, rendendolo in solido oggetto dell´arbitrio del potere: persino nelle regole più neutre, come quelle elettorali, scritte a garanzia soltanto e soprattutto della regolarità del momento supremo in cui si vota.

Nella concezione psicofisica del potere berlusconiano, la prova di forza rassicura il Premier, dandogli l´illusione di crearsi con le sue mani la sovranità stessa, fuori da ogni concerto con l´opposizione, da ogni limite di legge, da ogni controllo del Quirinale. Un´autorassicurazione che nasce dal prevalere della cosiddetta "democrazia sostanziale" rispetto a quella forma stessa della democrazia che sono le regole, la trasparenza e le procedure, vilipese a cavilli e burocrazia. Emerge dallo scontro, secondo il Premier, l´irriducibilità del potere supremo, che rompe ogni barriera di consuetudine e di norma se soltanto lo ostacolano, e non importa se la colpa è sua: anzi, da tutto ciò trae l´occasione di fondare un nuovo ordine di fatto, che basa sullo stato d´eccezione, fondamento vero della sovranità di destra.

Ma c´è, invece, qualcosa di crepuscolare e di notturno in questa leadership affannosa e affannata che usa la politica solo per derogare da norme che non sa interpretare nella regolarità istituzionale, mentre è costretta a piegarle su misura della sua necessità cogente e contingente, a misura di una miseria politica e istituzionale che forse non ha precedenti: e non può trovare complici. Le opposizioni, tutte, lo hanno capito. Molto semplicemente, un leader e uno schieramento che hanno bisogno di un abuso di potere in forma di decreto anche per poter continuare a fare politica, non possono avere un futuro.

venerdì 5 marzo 2010

Altri 14 milioni di euro stanziati per la legge 162. Di Marco Espa

Bruno e Espa (Pd) : altri 14 milioni di euro stanziati per la legge 162, una vittoria delle famiglie.

In Consiglio regionale è stata vinta la battaglia per il sostegno alle persone con disabilità e le famiglie, con lo stanziamento di altri 14 milioni di euro per i piani personalizzati della 162. Siamo sempre la prima Regione in Italia: con questa legge stanziamo 120 milioni di euro e diamo respiro a 28 mila persone con disabilità e alle loro famiglie.

La maggioranza, da noi costretta ad esaminare la proposta con urgenza in Aula, avrebbe potuto mostrare più coraggio, inserendo tutte le risorse sufficienti: ma evidentemente ha altre priorità. Il Partito democratico e tutto il centrosinistra hanno combattuto per portare le risorse aggiuntive da 14 milioni a 28 milioni, con un emendamento che è stato bocciato in modo incomprensibile dal centrodestra. Ma siamo soddisfatti di ciò che è stato ottenuto. É un passo avanti molto importante.

Ma il risultato non è stato ottenuto soltanto grazie al lavoro portato avanti in Consiglio Regionale. Siamo convinti infatti che ogni euro stanziato in più sia merito delle battaglie e dell'impegno delle persone con disabilità e delle loro famiglie in situazione di gravità: pacifiche ma determinate, si sono mosse a difesa dei propri diritti. Siamo orgogliose di loro.

Questa mobilitazione, con decine di enti locali che hanno approvato atti di protesta contro i tagli, ha condotto a questo primo importante risultato. È stato così salvaguardato il livello di assistenza sociale raggiunto in questi anni, dal 2001 ad oggi frutto di una battaglia di emancipazione dei diritti condotta dal basso, dalle famiglie che, anche in situazione di gravità estrema, vogliono prendersi cura dei loro cari in famiglia, rifiutando ogni logica di istituzionalizzazione.

La legge 162 non riguarda solo i diritti delle persone con disabilità: è un buon investimento ed è anche un risparmio per le casse della Regione: oggi il costo annuale per una persona non autosufficiente in residenza è pari ad una spesa di circa 22 mila euro. Quella stessa persona, con la legge 162, ha un costo massimo per le casse pubbliche di soli 14mila euro, un anziano grave di soli 5mila euro l'anno. Nell'anno in corso, grazie alla 162 si spendono per 2.795 anziani in condizione di grave disabilità circa 13 mil di euro, a fronte di una spesa complessiva di 61.210.500 euro se queste stesse persone fossero inserite in RSA con un risparmio evidente per le casse regionali.

Marco Espa, PD, Vicepresidente 7° Commissione sanità e politiche sociali del Consiglio Regionale

Mario Bruno Capogruppo del PD