sabato 30 luglio 2011

Dai partiti ai movimenti e ritorno









di Ernesto Maria Ruffini

In principio era la politica e con essa i partiti, quelli che venivano chiamati partiti di massa con i loro milioni di voti. Poi sono arrivate le masse da sole e i movimenti con i loro milioni di astensioni. E nel mezzo che è successo? Che fine ha fatto il ruolo dei partiti? E quale era questo ruolo? Se proviamo a domandarlo ai ragazzi nati dopo il 1989 non avremo risposte incoraggianti.

I partiti sono purtroppo percepiti come luoghi dove regna sovrana la casta per la tutela degli interessi di pochi privilegiati e i movimenti come l’unico modo che il popolo ha per far sentire la sua voce e per costruire il bene comune.

Ma è davvero così?

In realtà, nella mente dei nostri Costituenti, i partiti politici avrebbero dovuto essere il mezzo per consentire a noi cittadini di partecipare concretamente alla vita politica del Paese. Avrebbero dovuto essere, dovrebbero essere ancora – e per molti anni lo sono effettivamente stati – lo strumento di mediazione tra i cittadini e le istituzioni, per impedire qualsiasi forma di democrazia plebiscitaria, dove il popolo è chiamato ad occuparsi di politica solo in occasione del voto.

È nei partiti, quindi, che dovrebbero essere elaborate le domande che la società pone in continuazione. È nei partiti che dovrebbero essere raccolte le idee per organizzare una volontà comune attraverso i programmi elettorali. È «nei partiti che si preparano i cittadini alla vita politica e si dà modo ad essi di esprimere organicamente la loro volontà; è nei partiti che si selezionano gli uomini che rappresenteranno la nazione nel Parlamento» (Mortati). Perché i partiti «sono le fucine in cui si forma l’opinione politica e in cui si elaborano le leggi» (Calamandrei).

I partiti immaginati dai Costituenti, quindi, non erano solo il mezzo per selezionare la classe politica destinata a rappresentare e guidare il Paese, ma anche l’indispensabile strumento per favorire la dimensione sociale del singolo cittadino e il suo inserimento nel contesto che lo circonda, in modo da consolidare e favorire la maturazione della vita democratica e il confronto tra le diverse idee di società nella ricerca della sintesi dell’indirizzo politico del Paese.

Ed infatti, i partiti, «quando nacquero, dopo la insurrezione, erano pensiero, erano cultura, erano formazione, specie per i giovani, erano ricchezza di programmi, erano insegnamento di incrocio dialettico fra pensieri diversi. Poi, ci fu la degenerazione. Se ci sono, i partiti devono tornare con questa impostazione di alto profilo, devono aiutare ad elevare la politica» (Scalfaro).

Ma allora cos’è che non ha funzionato? In cosa sarebbe stata tradita la visione dei Costituenti? In cosa sarebbe stato tradito l’articolo 49 della Costituzione, dove è previsto che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la vita politica nazionale»?

Forse proprio in questo, nel “metodo democratico” che dovrebbe caratterizzare la vita di ogni partito.

Ora, coma allora, lo Stato non sarebbe realmente democratico se le decisioni politiche destinate ad influenzare la vita dei singoli cittadini venissero adottate all’interno di organismi per i quali non fosse garantita alcuna forma di democraticità interna e dai quali la stragrande maggioranza dei cittadini fosse estranea. Perché «se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere un indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese» (Moro); perché «una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici» (Calamandrei).

Ma il metodo, oltre ad essere effettivamente democratico, deve anche essere percepito come tale. E troppo spesso la sensazione è che tutto sia invece deciso a tavolino da pochi e passivamente accettato da tutti gli altri. E questa legge elettorale, di certo, non ha aiutato. Anzi!

Una sensazione dettata anche dalla innata tendenza dei militanti di partito, specialmente nei partiti di sinistra, di fare comunque ritorno nella maggioranza interna, dopo aver esposto un timido o coraggioso dissenso. Come se l’essere minoranza in un partito – e in un Paese – non avesse diritto di residenza in democrazia; come se essere contrari fosse sconveniente; come se il confronto possa spingersi solo fino ad un certo punto.

Ed ecco, allora, che il dissenso esce dai partiti e si riversa nelle piazze, nelle masse, nei movimenti e nell’astensione dal voto.

Invece, dovremmo riscoprire il valore del confronto democratico. E proprio il Partito Democratico dovrebbe difendere il suo essere effettivamente tale. Ed ancora una volta, dovremmo porre attenzione ad una lezione che ci arriva da lontano, da uno di quei Costituenti, forse troppo frettolosamente archiviati come storia passata.

Qualche anno dopo l’approvazione della Costituzione, in occasione del dibattito parlamentare su una proposta di modifica alla legge elettorale, Calamandrei ebbe modo di sottolineare l’importanza di un partito in cui poter esprimere democraticamente anche il proprio dissenso. Perché «esponendo la nostra opinione contraria, noi non solo non intendiamo di mancare di rispetto o di fedeltà al nostro partito; ma anzi intendiamo di fargli onore, perché esso ci dà la possibilità di esprimere liberamente, direi quasi cordialmente, la nostra opinione, senza che per questo noi cessiamo di essere fedeli al nostro partito. Il nostro partito è veramente un partito democratico. Esso, come tale, ha fede soprattutto nella ragione, nella persuasione. In questa possibilità di esporre onestamente diverse ragioni contrastanti, di lasciare che certe crisi di coscienza affiorino pubblicamente senza scandalo, consiste la forza democratica del nostro partito. Non invidiamo i partiti in cui crisi di opinioni come le nostre sono condannate a rimanere imprigionate e ad invelenirsi nel chiuso delle coscienze.

Il nostro partito ammette e rispetta la tormentosa eresia e l’onesto deviazionismo; non brucia gli eretici e non impicca i deviazionisti. Anche noi […] siamo mossi in questo nostro dissenso dal desiderio di contribuire a salvare la democrazia del nostro Paese. E quando parlo di democrazia, non tanto mi vengono in mente gli aridi meccanismi costituzionali intorno ai quali noi giuristi dissertiamo, o questa nostra aula dove discutiamo noi, uomini politici; quanto mi viene in mente il nostro Paese, il Paese vero, il Paese vivo, questo popolo vivo […], che lavora o vorrebbe lavorare e soffre e spera, e al quale la Costituzione ha assicurato una esistenza “libera e dignitosa”; questo popolo che vede la politica da lontano, forse senza rendersi conto della ragione di tanti dibattiti, di queste nostre discussioni che possono sembrargli logomachie; e che nella politica va in cerca di idee semplici per orientarsi e per capire: capire che cosa si faccia qui per lui, o che cosa, qui, contro di lui si trami» (Calamandrei).

Ecco, la soluzione è proprio questa. Per recuperare le masse, per evitare l’astensione, per coinvolgere i movimenti e per non tradire lo spirito dei Costituenti dovremmo difendere il valore del dissenso e del confronto, senza paura di sembrare quello che invece dovremmo essere orgogliosi di essere: democratici.

La strada? Il Partito Democratico l’aveva intuita, l’aveva tracciata. Ma non ha ancora avuto il coraggio di percorrerla tutta, fino in fondo.

La strada è quella delle primarie. Non il controsenso delle primarie aperte solo agli iscritti. Se le primarie sono un mezzo per coinvolgere i cittadini e se il Partito Democratico è formato anche dai suoi elettori e non solo dagli iscritti, limitare le primarie a questi ultimi sarebbe solo il maldestro tentativo di evitare il vero confronto. Il confronto con i cittadini.

Le primarie, anche quelle per le cariche interne di partito, dovrebbero essere aperte agli elettori del P.D., perché saranno loro ad avere l’ultima parola.

Organizzare il Partito tra di noi, come se non dovessimo mai confrontarci con gli elettori per la ricerca del bene comune non è un grande progetto. E solo la ricerca del bene comune può giustificare l’esistenza stessa di un partito. Ma la visione del bene comune non appartiene ad un solo partito e, tantomeno, alla maggioranza di un partito, ma appartiene a tutti e può emergere solo dal confronto tra tutti, dallo scontro delle opinioni di tutti e dalla ricerca di un bene davvero comune a tutti.

venerdì 29 luglio 2011

Intervista di Eugenio Scalfari per Repubblica del 28/7/1981 a Enrico Berlinguer sulla questione morale: «I partiti sono diventati macchine di potere»

All'epoca di questa storica intervista cominciavo alla lontana,molto alla lontana, a seguire la politica,avevo le mie idee,speravo in un accordo quantomeno programmatico tra la Dc e il Pci.Mi piaceva molto la coppia Moro-Berlinguer...Soffrii davvero per il rapimento e l'uccisione del leader Dc,così come mi rattristarono parecchio quelle immagini del palco di Padova dove si concluse il percorso umano-politico del segretario comunista.Insomma l'Italia che fu!
E l'Italia di oggi invece?
Sui giornali,in tv, su internet tutti i giorni uno stillicidio di notizie e commenti sulla corruzione e sul malcostume che caratterizza la vita politica mentre il Paese affonda,con un livello di immagine internazionale pari a zero!
Ieri Scalfari su Repubblica ha fatto riferimento a questa intervista in cui per la prima volta Berlinguer affronta questo tema.
Ci sono dei passaggi molto significativi che,incredibilmente e drammaticamente, risultano di estrema attualità.










«I partiti sono diventati macchine di potere»



«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.

«I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».



Eugenio Scalfari

* * *

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...



Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.



Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.



Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?



Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.



Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.



Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?



Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.



Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.



Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?



Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.



Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...



Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.



Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.



Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.



Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.



Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.



E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

«La Repubblica», 28 luglio 1981

mercoledì 27 luglio 2011

Unione dei Comuni,Gian Valerio Sanna spiega gli obiettivi della legge regionale 10










di Gian Valerio Sanna



La recente approvazione all’unanimità, prima della Commissione, e successivamente anche del Consiglio regionale, della legge 10 che ha ridefinito la personalità giuridica delle Unioni del Comuni, ha innescato polemiche e reazioni che hanno portato anche alle dimissioni di alcuni Presidenti. Sulla vicenda ora, per fare chiarezza, interviene il Consigliere regionale Gian Valerio Sanna che spiega in che modo si è arrivati alla definizione della legge e le modifiche che questa ha apportato.

Secondo l’esponente del Pd Gian Valerio Legge dietro la proposta non c’è di fatto alcun problema sulle Unioni dei Comuni e che quanto scritto altro non è che una messa in scena priva di costrutto e di razionalità.

“All’interno del mio Partito qualcuno, più attento a costruire liti e dissensi nei confronti delle persone ha caricato la questione di valenze personali che non esistono – ha dichiarato Gian Valerio Sanna - la legge infatti è stata approvata all’unanimità dal Consiglio regionale per questo posso condividere alcune posizioni ma non mi posso certo fare carico delle responsabilità della maggioranza ne quelle dell’intera opposizione”.

Nel chiarimento Sanna ha voluto ricordare che la regione Sardegna dispone di una propria potestà legislativa, esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali, e quindi può legiferare autonomamente forme organizzative o norme in tali materie.

“La precedente legge 12 definiva proprio la personalità giuridica delle Unioni dal momento che affermava che le stesse sono enti locali – ha ripreso Gian Valerio Sanna - ma che la personalità giuridica fosse questa lo afferma la stessa legge quando si riferisce al testo unico e dunque alla materia dell’ordinamento degli enti locali e non già ad organismi di diritto privato come qualcuno ha stupidamente ipotizzato. Operare quindi come ente locale non significa tuttavia costituire un ulteriore livello intermedio di ente, avendo al contrario eliminato con la 12 del 2005 le comunità montane proprio per semplificare un quadro istituzionale che la stessa costituzione non prevedeva. Nel nostro ha spiegato Sanna - alcuni segretari comunali, come si sa possono scegliere una pluralità di sedi, optavano per l’Unione come sede stabile di lavoro privando alcuni comuni delle relative disponibilità di segretari e poi utilizzando il dato demografico delle stesse unioni per progressioni economiche e stipendiali che gravavano interamente sui comuni e sul fondo unico per importi che oscillavano fra i 30 ed i 60 mila euro ad anno”.

Secondo il Consigliere Regionale qualche amministratore, anche di area Pd, ha voluto utilizzare le unioni come valvole di sfogo delle note esigenze clientelari pubbliche per assunzioni ed incarichi che nei propri comuni non sono al momento consentite per il blocco imposto dalle leggi finanziarie.

“Non esiste quindi alcun declassamento: le Unioni non sono Enti locali in quanto tali ma lo sono soltanto per personalità giuridica al fine di poter esercitare le funzioni associate demandate dai Comuni – ha spiegato Gian Valerio Sanna - altro che forma ibrida, essa costituisce una forma propria ed originale frutto della autonoma capacità legislativa ed ordinamentale della Regione. Fa molta specie, inoltre, che l’Anci Sardegna, attualmente commissariata, abbia sostenuto una simile ed illogica interpretazione anche se il reggente, e il cosi detto Direttore, sono di chiara appartenenza di centro destra e dunque potevano legittimamente sollevare un problema per nasconderne uno più grande”.

Secondo Gian Valerio Sanna l’aspetto principale è che la Giunta regionale ha cancellato, per il 2011, il finanziamento alle Unioni o meglio lo hanno caricato per intero sui Comuni che si troveranno 17 milioni e mezzo di euro in meno sul Fondo unico di quest’anno. Un espediente utilizzato spesso dalla destra, per distrarre gli interessati su altri argomenti ed evitare così polveroni agli attuali manovratori.

“Dispiace che su questo ci siano cascati molti amministratori del Pd e del centro sinistra e che l’intuito politico sia così caduto in basso da rendere buoni amministratori totalmente al servizio di un Anci – ha ripreso Gian Valerio Sanna - che dovrebbe essere ripensata totalmente e radicalmente”.

Il Consigliere del Pd chiarisce infine quella che ha definito la “lobby dei segretari.

“La Funzione pubblica aveva segnalato tempo fa l’anomala progressione economica dei segretari comunali in Sardegna per via di questa interpretazione delle Unioni – ha concluso Gian Valerio Sanna - che in quanto Enti locali, potevano essere scelte come sedi e dunque con la rilevanza degli abitanti di cui disponevano le stesse unioni i segretari maturavano l’esperienza lavorativa in enti di dimensione considerevole e dunque potevano accedere all’incremento della fascia retributiva. Non sarà generalizzabile ma questo accadeva nel silenzio o nella acquiescenza degli amministratori che dovrebbero sorvegliare al meglio le risorse dei cittadini. Poi lobby non è neppure un termine obbligatoriamente negativo né lo ho usato in questo senso ma soltanto per descrivere che dentro alcuni grandi questioni si annidano anche problemi di alcune corporazioni. Ci vorrebbe una profonda riforma ma con questo centro destra non se ne farà neppure una.

Nureci, Mamma Blues 2011


Dal sito istituzionale del Comune di Nureci

Il Blues canta la madre, quella di tutti, la terra. Anche la mater mediterranea sul colle di Nureci è celebrata dal blues. È la stessa madre terra evocata attraverso la musica e il canto dagli schiavi africani deportati nelle Americhe.

Il Mamma Blues, giunto alla quinta edizione, è, dunque, una celebrazione del legame eterno tra i popoli e la madre terra. Quest’anno Little Axe, all’anagrafe Bernard Alexander, proporrà un Blues profondo incanalato attraverso il tempo, esplorato, rielaborato, contaminato, campionato, trasformato, rinfrescato:

il Blues del presente, del passato, proiettato al futuro. The Sweet Vandals dal canto loro paiono uscire dai club della vecchia America e ricoprono il nostro immaginario di musica black allo stato puro, dando nuovo lustro al soul e al funk degli anni Settanta con la voce della cantante Mayka Edjole a dominare con il suo tono profondo e a fare da padrona su travolgenti ritmi a cavallo tra il funk e il soul.

Infine Sherman Robertson e la sua musica, un esplosivo miscuglio di Texas blues elettrico, Rythm&Blues, Louisiana Blues e
Zydeco (la musica tradizionale della Louisiana meridionale che amalgama la tradizione francese, quella caraibica e quella degli spiritual afro-americani).

ALBERTO SANNA - ONE MAN BAND
08 agosto, ore 24.00

KING HOWL QUARTET
08/09/10 agosto, fine serata

THE SWEET VANDALS
09 agosto, ore 22.00

JHON DRAIN AND THE LIVE CITY BLUES
09 agosto, ore 24.00

SHERMAN ROBERTSON
10 agosto, ore 22.00

SUNSWEET BLUES REVENGE
10 agosto, ore 24.00

QUARTETKING HOWL
08/09/10 agosto, fine serata

mercoledì 20 luglio 2011

Secondo me


dal blog di Pippo Civati





Secondo me, la politica italiana si deve svegliare.

Secondo me, deve farlo ora.

Secondo me, può prendere esempio da chi sta cercando di farlo altrove, come ha fatto Rubalcaba, il candidato del Psoe a prima vista del tutto improbabile (qui il discorso all'atto della sua candidatura, qui il video, qui un ottimo commento).

Secondo me, chi sta all'opposizione deve raccogliere per prima cosa il sostegno di chi non si sente di darlo a nessuno.

Secondo me, il problema principale è quello della fiducia.

Secondo me, il partito dell'astensione non è un fatto statistico, da convegno, ma il punto di partenza.

Secondo me, valgono di più le vite dei precari dei vitalizi dei parlamentari. E dei consiglieri, eh.

Secondo me, metà stipendio farebbe bene ai parlamentari. E dopo un po' farebbe bene anche smettere.
Secondo me, i parlamentari li devono scegliere gli elettori, come se fosse davvero, la prossima, un'assemblea costituente: non per via del volemose bene, come la intende qualcuno, ma del livello di qualità.

Secondo me, si deve partire dalla distanza che c'è e che si allarga tra politici e cittadini.

Secondo me, chi sta meglio deve aiutare chi sta peggio, perché il primo, e non solo il secondo, starebbe molto meglio di come si sta ora.

Secondo me, le disuguaglianze sono troppe. E la concorrenza sleale è parente dell'immobilità sociale (e bisogna essere parenti, in ogni caso, altro che merito).

Secondo me, cambiare si può.

Secondo me, c'è un posto dove farlo ed è il Pd. Che però deve avere l'intelligenza politica (e la moralità) di farlo. Ora o mai più. Perché si vive una volta sola. E la politica deve essere oggi all'altezza del proprio compito.

Secondo me, ci vuole più politica, non meno.

Secondo me, essere popolari non vuol dire essere populisti (e viceversa).

Secondo me, essere semplici non vuol dire essere banali (e viceversa).

Secondo me, viceversa, dobbiamo cambiare passo. E non è una critica a qualcuno, chissenefrega delle critiche. E, tutto sommato, anche di quel qualcuno.

Secondo me, ci vuole un progetto che cambi le cose, che ascolti tutti, ma che non guardi in faccia a nessuno.

Secondo me, la politica non si fa solo nei partiti, che hanno l'esclusivo compito di trasformarla in un percorso legislativo e in decisioni trasparenti e chiare.

Secondo me, non sono le donne che hanno bisogno di un partito di sinistra, ma un partito di sinistra che ha bisogno delle donne.

Secondo me, di tempo ne abbiamo perso fin troppo. Tutti quanti. Non solo quelli che sono lì da sempre, ma anche noi.

Secondo me, ho perso e fatto perdere troppo tempo anch'io, nel mio piccolo.

Secondo me, se venite ad Albinea, capirete che c'è un posto nel Pd, nella politica, in cui si può discutere di queste cose. In cui si possono piantare le tende (di campeggio si tratta) ed esigere quel cambiamento di cui parlano un po' tutti, senza che nulla cambi mai. Senza formare un altro partito, senza pensare che tutto si risolva in piazza, senza credere che si possa tornare, insomma, alla democrazia diretta, ma che si debba far funzionare la democrazia rappresentativa, sì, cazzo.

Secondo me, c'è il vento, ma ci vogliono i mulini. Che lo trasformino in energia di governo.

Secondo me, i gattopardi si possono smacchiare, ma bisogna essere determinati. E non avere niente da perdere, come la storia di questo Paese ci insegna, dove il fondo del barile è una bella immagine, perché non c'è più fondo e nemmeno il barile (lo hanno scaricato, molto tempo fa).

martedì 19 luglio 2011

La lettera del figlio di Paolo Borsellino al padre.



Nel 19° anniversario della strage di via D'Amelio

di MANFREDI BORSELLINO.

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.

Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.

Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.

Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.

lunedì 18 luglio 2011

A proposito della Casta












Ritengo Caterina Pes una parlamentare seria e sobria(con riferimento a quello che dovrebbe essere il comportamento di un politico del suo livello),o se si preferisce,sobria perchè seria.
Il suo modus operandi lo dimostra,e non certamente in un periodo come questo dove potrebbe risultare facile e soprattutto "doveroso" per un deputato o per un senatore cercare di affrancarsi da siffatta(e per certi versi legittima)questione dei costi della politica,con annessi e connessi.
Al di la di quanto lei sottolinea in questa nota,dalla quale peraltro si evince chiaramente questo suo "insospettabile" tratto caratteristico,credo che se avessimo una percentuale un po più alta di parlamentari di questa categoria verosimilmente le cose andrebbero meglio,anche dal punto di vista dell'immagine e dell'esempio che Caterina trasmette.


di Caterina Pes


Non voglio

tirarmi indietro riguardo a un tema che mi riguarda da vicino, come quello dei

privilegi dei parlamentari.



Intanto vorrei

fare una prima riflessione, per poi magari tornarci sopra.



Inizio col

dire che non sono mai entrata gratis al cinema o a teatro. Mi imbarazzerebbe.



Ogni settimana

vado all’aeroporto in treno e pago il biglietto, come tutti.



La mia famiglia

non ha mai viaggiato gratis.E non so cosa sia un’auto blu …



Però l’aereo

di stato l’ho preso una volta, per andare in Afghanistan, e ho avuto anche

paura …



Ho una

segretaria, a cui verso regolarmente i contributi e uno stipendio equo e

onesto.



Ho un

ufficio a palazzo marini, quello che costa molto, che è l’unico posto tutto mio

che ho a Roma. Poiché non ho casa ci lascio anche il cappotto invernale …



Ogni mese

verso al mio partito circa 2000 euro più varie ed eventuali. Spendo circa 500

euro la settimana di vitto e alloggio, e altre 500 al mese di telefono con

abbonamento personale Vodafone.



… ma la mia

parrucchiera, da cui vado una volta al mese e a spese mie, ieri mi ha detto

indignata : “ avete anche i parrucchieri gratis”!!!! Sono rimasta basita, lo

giuro … perché lei era l’esempio lampante che non tutto è vero.



Eppure lei

non ci credeva!!!!!!



Tutto questo

per dire che molto dipende da come ognuno di noi vive il suo mandato.



Ho rinunciato

ai benefit più ingiustificati e clamorosi fin dal primo giorno della

legislatura. E non solo perché ingiusti … è stata anche la mia famiglia a

chiedermelo.







Ma questo

per dire anche che sino a che la politica non ricomincerà ad essere un mestiere

alto e nobile, continuerà ad essere percepita dalla gente come semplice casta …

Casta Diva


Prosegue il dibattito,anche tra noi democratici,siamo stati proprio noi democratici a innescarlo,sui costi della politica,sulla cattiva politica che genera l'antipolitica...
Pubblico questo articolo di Emiliano Deiana,bravissimo come sempre,che offre lo spunto per un confronto serio e serrato sull'argomento che coinvolge noi tutti del partito,simpatizzanti,semplici iscritti,dirigenti,sindaci,consiglieri regionali,parlamentari,ma anche e soprattutto cittadini comuni.


di Emiliano Deiana


Non fate i populisti.

Non fate i demagoghi.

Perchè poi con l'antipolitica nascono nuovi dittatori.

Non sentite il clima del 1992?

Il tintinnare delle manette?

La grandinata di monetine?

E cosa ne ha avuto l'Italia? Un nuovo padrone come Berlusconi.

Morti, politicamente, Craxi, Andreotti, Altissimo, Longo e La Malfa cos'abbiamo saputo produrre nella Seconda Repubblica? Un razza predona peggio della precedente, più affamata, meno controllata, più spregiudicata.

Quindi: non fate i populisti, non fate i demagoghi che con l'antipolitica non si va da nessuna parte.

Non passate il tempo a denunciare i privilegi assurdi della Casta parlamentare.

Non chiedete l'abolizione di enti inutili come le Province.

Non incartetevi riesumando vecchi paroloni polverosi come l'austerità.

Questi sono i concetti, i consigli e le raccomandazioni che piovono quando un povero cristo si permette di dire che forse la politica, nella sua costante azione di autotutela, sta esagerando.

Ed esagera in un momento di crisi economica che invece di passare si sta acuendo.

Ne abbiamo sentito per 2 anni con la solfa della crisi percepita.

Ne abbiamo sentito per 2 anni di predicozzi che la crisi era solo una bolla speculativa.

Ne abbiamo sentito per 2 anni di dibattiti politici sulla solidità del sistema Italia.

Poi c'è la crisi che non passa.

La disoccupazione che aumenta.

Il precariato che allontana milioni di persone dalla sicurezza e dai diritti.

Il potere d'acquisto delle famiglie ridotto.

La sindrome della terza settimana.

E poi c'è un ceto politico, rinchiuso nei palazzi, che non sente il bisogno di fare esso stesso i sacrifici che vengono richiesti ai cittadini.

E mentre i pensionati italiani dovranno pagare nuovamente i Ticket sanitari i deputati e senatori ne sono esentati. E viaggi gratis, cure termali ed anche il psicoterapeuta per i più stressati.

No, non è antipolitica questa.

Questi sono privilegi. Privilegi insopportabili, insensati e "schifosi".

Perchè non basta uno stipendio adeguato (molto adeguato) alle responsabilità e alle funzioni (nonchè ai carichi di lavoro), ma a questo si aggiungono degli insulti all'intelligenza degli italiani.

E capisco anche che sia "impossibile" vedere una Casta che si autoriforma e si autopunisce.

E intuisco i discorsi che si fanno alla bouvette di Montecitorio fra una seduta e l'altra.

E annuso il fatto che non tutti i Deputati e non tutti i Senatori siano uguali.

Ma proprio perchè ho la speranza che non tutti siano uguali mi chiedo perchè si aspetti il voto di un emendamento parlamentare per cambiare il costume politico.

Mi chiedo perchè i Gruppi politici che dicono di volere il cambiamento e l'alternativa non si ribellano allo stato di cose con uno strumento talmente banale da essere rivoluzionario: la rinuncia.

Chiedo, da uno sperduto paese della Sardegna, che i Parlamentari che non si sentono a proprio agio, per via di quei privilegi insopportabili, all'interno dei Palazzi vi rinuncino pubblicamente.

Rinuncino alle cure mediche gratuite, paghino il Ticket come tutti i normali cittadini, paghino il treno quando non si spostano per ragione del loro ufficio, entrino allo stadio pagando come un Ultras qualsiasi.

E lo dicano pubblicamente, lavorando affinchè non siano casi isolati, ma azioni collettive di interi Gruppi Parlamentari.

Forse così, aspettando tempi migliori per un cambio di regole, si ridarà senso alla Politica, quella con la P maiuscola.

Aspetto segnali, con l'orecchio appoggiato sui binari, come gli indiani, aspettando il treno del cambiamento possibile.

venerdì 15 luglio 2011

I nostri riformisti che,sulle Province,hanno perso la faccia


Stamattina,prendo in mano "Il Venerdì di Repubblica" e, come ogni settimana,inizio a sfogliarlo.Subito all'inizio trovo e leggo questo articolo.Per un istante mi sorge il dubbio che,vista la firma,si sia trattato di un errore di impaginazione,di stampa e che magari è stato, per sbaglio,inserito un articolo di Feltri o di Belpietro!
Lo leggo di nuovo,e ancora una volta.
No no,l'articolo è proprio di Curzio Maltese,editorialista di punta di "Repubblica".
E allora penso che in fondo la differenza sostanziale tra i giornalisti sopraccitati e quelli a noi vicini(come Maltese)è proprio questa:quelli non potranno mai,e sottolineo mai,prendere,a parti invertite, queste posizioni verso Berlusconi e il suo governo,mentre Maltese e quanti sono vicini a noi lo fanno con molta serietà,competenza e rispetto per questa importantissima professione,dimostrando ampiamente che il ruolo del giornalismo,di quel giornalismo di cui c'è tanto bisogno nel nostro Paese,è altra cosa rispetto al servilismo tout court.
Certo,francamente da democratico mi ha fatto molto male leggere queste righe,e tuttavia nel momento in cui prendiamo,peraltro in un periodo topico per la politica italiana,certe cantonate beh,prendiamoci anche queste lezioni!
Facciamo però subito tesoro di questi inverosimili errori e andiamo avanti con serietà e responsabilità.









di Curzio Maltese(dalla rubrica "contromano" del "Venerdì di Repubblica" del 15/7/2011


Una delle grandi questioni politiche degli ultimi vent'anni è questa:i grandi capi del riformismo italiano ci sono o ci fanno? Le giustificazioni al voto del Pd che ha mantenuto le Province viaggiavano nello scivoloso terreno fra il ridicolo e il penoso. Con sconfinamenti nell'ultima ideologia superstite della sinistra:il "benaltrismo". "Ci vuole ben altro che l'abolizione delle Province per rimettere in sesto i conti dello Stato".
Certo,ma intanto milioni di cittadini si sarebbero accontentati di veder abolito il più impopolare e costoso(14 miliardi) degli enti inutili.Perchè il Pd non ha voluto? L'unica logica spiegazione è che il Pd non vuole mandare a casa i suoi quaranta presidenti di Province e il personale politico al seguito.
Le altre sono francamente degli alibi.
"Così s'incoraggia l'antipolitica" hanno tuonato i dirigenti locali e nazionali del Pd,ma è vero l'esatto contrario.A parte questo,di che vanno cianciando questi professionisti della politica ignorante?
Di abolire le Province si parla fin dalla Costituente.Si decise allora di mantenerle soltanto in attesa delle Regioni.
Quindi le Province avrebbero dovuto morire nel 1970 e invece sono raddoppiate.Il Pd vorrebbe ridurle,ma non abolirle.Confermando una concezione miserabile del riformismo all'italiana,che consiste nel trovare un eterno compromesso con il peggio espresso dalla destra. Ma se il partito riformista non ha neppure il coraggio di varare la più popolare delle riforme,come pensa di poter cambiare il Paese?
La vera questione è che il Pd,per meglio dire la sua dirigenza,non è in grado di intercettare e neppure di capire la spinta profonda al cambiamento della società italiana.In qualche modo chiara al resto dell'opposizione,da Di Pietro a Vendola,perfino da Casini a Fini.Il Pd ha vinto a sua insaputa le elezioni di Milano e di Napoli con candidati che non avrebbe mai scelto,ha vinto a sua insaputa i referendum che non voleva.Ed è diventato nei sondaggi il primo partito per demeriti altrui.Poi,quando si è trattato di ritirare i premi della lotteria,ha perso i biglietti vincenti.
I dirigenti più capaci del Pd,e ce ne sono,dovrebbero riflettere e cambiare in fretta strada.Altrimenti la storia è gia scritta.L'ennesima resurrezione di Berlusconi,magari in forma di un berlusconismo senza il Cavaliere.Deludere ancora le attese degli elettori del centrosinistra significa andare incontro,alle prossime elezioni,a una disfatta storica e definitiva,contro una santa alleanza di centrodestra,da Casini alla Lega,con Berlusconi a fare da burattinaio.

martedì 12 luglio 2011

La tela di Penelope














La politica italiana si appresta ad andare in vacanza(ma poi,scusate,come fa un politico italiano a prendere le ferie stante questa drammatica situazione economico-sociale che attanaglia il nostro Paese e che ogni giorno di più palesa situazioni di criticità inverosimili!)lasciando sul tavolo,e quindi da prendere seriamente e immedietamente in mano alla ripresa della attività,tutta una serie di questioni aperte di estrema gravità che aspettano una celere e congrua soluzione.
Io credo che,e non lo dico certamente perchè voglio continuare ad alimentare quel vento populista che di questi tempi tanto soffia,una delle maggiori attenzioni la politica(a tutti i livelli,dal più piccolo degli enti locali fino alle massime cariche istituzionali) la debba prestare davvero ai costi che essa genera e alle correlate considerazioni etico-morali che,evidentemente,non risultano più eludibili.
Ancora,pur essendo assolutamente schierato,o forse proprio per questo, mi capita ogni tanto,come in questo momento, di essere particolarmente critico con il mio partito,mi capita di non condividere assolutamente alcuni comportamenti da esso posti in essere nei vari livelli istituzionali ove opera.E ritengo altresì,questo rispetto a coloro i quali nel campo della destra esercitano una militanza acritica in nome di un credo che è appunto esclusivamente devota obbedienza peddissequa al Signore(a quello di Arcore),di aver sempre fatto politica sulla base delle mie idee, che trovano naturale collocazione nel Partito Democratico,ma non certamente sulla base di un eventuale disciplina di partito che non mi consenta di intervenire anche in modo determinato quando non condivido linee politiche o più semplicemente,come in questo caso,iniziative che io considero estemporanee o comunque non in sintonia con le aspettative di un opinione pubblica sempre più in movimento e sempre più attenta all'operato della politica e dei politici.Debbo dire,ad onor del vero e grazie a Dio,che nel Pd esiste una base estremamente viva e pronta a far sentire anche il proprio dissenso verso gli organismi dirigenti quando le circostanze lo impongono.Semmai,e questa invece è la nota un po stonata,i vertici del partito,di fronte a queste fattispecie,cercano di glissare come se nulla fosse.
Sembra il celebre stratagemma, narrato nell'Odissea, creato da Penelope, la quale per non addivenire a nuove nozze, stante la prolungata assenza da Itaca del marito Ulisse, aveva subordinato la scelta del pretendente all’ultimazione di quello che avrebbe dovuto essere il lenzuolo funebre del suocero Laerte. Per impedire che ciò accadesse la notte disfaceva ciò che tesseva durante il giorno.Il Pd è impegnato in un serio percorso teso ad accreditarsi come perno dell'alternativa a questo governo e a questa destra inconcludenti e alla deriva e tuttavia eccolo periodicamente e soprattutto in momenti davvero strategici disfare quanto saggiamente costruito in precedenza.
Non lo capisco.
Dopo i risultati eccellenti delle amministrative e del referendum,il Pd invece di perfezionare la sintonia anche con quel cosiddetto movimento invisibile ricomincia a sentirsi autoreferenziale.La recente astensione,davvero incomprensibile per quanto mi riguarda, sul voto per la soppressione delle Province è uno di questi inverosimili episodi.
Il giorno dopo questo voto e non il giorno prima,quando la protesta di militanti,circoli e organizzazioni vicine al Pd aveva raggiunto picchi molto elevati,trovo sulla mia casella di posta una mail del responsabile nazionale degli Enti Locali Zoggia così titolata "Cancellando la parola "province" non si riducono i costi della politica",nella quale giustificava le ragioni di questa scelta e rendeva nota la proposta di riforma del Pd ,asserendo che il partito vuole porre mano a questa discipina ma dicendo che la stessa va contestualizzata in un riordino complessivo del sistema delle autonomie locali e delle regioni,dove,sostanzialmente,e questa sembrerebbe la proposta ,dovrebbero essere proprio queste ultime,sentiti i Comuni,a determinare la soppressione o l'accorpamento delle Province.
A me pare di scorgere il nulla dietro questa circonlocuzione,un arzigogolo per dire che tutto resterà come prima!
Eccellenti politologi e giornalisti estremamente seri(Giannini,Augias)definendo il tutto come "piccoli calcoli di convenienza,stupidità politica",scrivono che questa è stata una occasione persa,che non andava certamente persa in questo straordinario momento e che altrettanto certamente produrrà le sue conseguenze.
Non marginale,aggiungo,anche l'astensione nel Consiglio Regionale della Sardegna su una proposta che prevedeva il divieto di cumulo del vitalizio per il deputato regionale,nazionale e europeo.
Altro tema caldo quello dei referendum sulla modifica della legge elettorale,nei confronti del quale la posizione del partito non è,a mio dire,particolarmente chiara.Da una parte il referendum-Passigli anti-Porcellum sostenuto da Psi,Prc e Api,che punta a ripristinare il proporzionale,dall'altra il contro-referendum per il Mattarellum sostenuto da Parisi-Veltroni-Castagnetti.Io credo che per quanto lacunoso potesse essere il sistema elettorale maggioritario-uninominale,esso ha senza dubbio contribuito a determinare,anche e soprattutto con la possibilità per l'elettore di scegliere il rappresentante territoriale,negli anni della sua attuazione,una ordinata e "logica" disciplina elettorale,che faceva sentire la gente vicina alle istituzioni.
Adesso,e fatta salva la decisione molto importante del Pd della Sardegna,adottata nell'assemblea regionale dell'altro ieri,di programmare,nelle more appunto di una nuova legge elettorale,le primarie come strumento di scelta dei rappresentanti per le candidature alla Camera e al Senato,è opportuno che il partito dica chiaramente e unitariamente come intende procedere e proceda.
Altro argomento molto importante sul quale il Pd ha dato prova di non stare in sintonia con l'opinione pubblica è quello sul testamento biologico.

Vabbè,da democratico riformista immaginavo che il partito potesse arrivare alla pausa estiva con più lucidità, cogliendo in pieno gli incoraggiamenti ricevuti nell'ultima tornata elettorale,e tuttavia rimango convinto che il Progetto-PD andrà avanti e sarà determinante per portare il Paese fuori da queste secche,anche perchè il vero riformismo,di cui c'è urgente necessità, in Italia potrà declinarlo al meglio solo il Partito Democratico.
Ne sono convinto.

lunedì 11 luglio 2011

Premio Campiello 2011:i cinque finalisti













A fine maggio a Padova, nell'Aula Magna Galilei dell'Università della città, la Giuria di Letterati del Premio Campiello ha reso note le proprie votazioni.


I cinque finalisti del Premio Campiello 2011 sono:

Ernesto Ferrero con "Disegnare il Vento", Einaudi, con nove voti; Giuseppe Lupo con "L'ultima sposa di Palmira", Marsilio, con otto voti; Maria Pia Ammirati con "Se tu fossi qui", Cairo Editore, con sette voti; Federica Manzon con "Di Fama e di Sventura", Mondadori, con sei voti; Andrea Molesini con "Non tutti i bastardi sono di Vienna", Sellerio Editore, con sei voti.

Le cinque opere finaliste verranno poi sottoposte ad un tour estivo, fino alla data del 3 settembre 2011, quando al Teatro La Fenice di Venezia, verrà decretato il libro vincitore, con votazione da parte della Giuria Popolare dei Trecento del Premio Campiello 2011.

Un modo per ottenere una votazione assoluta e voluta dal pubblico e non solo da letterati, che poi saranno i veri lettori delle opere presentate al premio.




Con questa doppia votazione, infatti, gli organizzatori del Premio Campiello vogliono assicurare la trasparenza e la veridicità delle votazioni effettuate, senza mostrare ingerenza o influenze di nessun genere.

Il Premio Campiello è uno dei premi più prestigiosi del nostro paese in ambito letterario.

Ricordiamo che la vincitrice della scorsa edizione del Premio Campiello è stata Michela Murgia con il suo Accabadora, edito da Einaudi, che ha riscosso un grandissimo successo.

Appuntamento a settembre 2011, quindi, con la proclamazione del vincitore del Premio Campiello 2011.

venerdì 8 luglio 2011

Serata finale del Premio Strega,il solito straordinario fascino!













La mia tarda serata di ieri,come peraltro oramai mi capita da molti anni,la ho riservata alla visione in tv della finale dello Strega.
Quest'anno,rispetto alle ultime edizioni,non vi è stata quella coinvolgente tensione,quell'ansia estremamente positiva, legate ad un eventuale testa a testa tra due opere.Non è stato appunto così, ma il risultato,in termini di arricchimento sociale-culturale,è stato straordinariamente importante.
Ha vinto "Storia della mia gente"(Bompiani)di Edoardo Nesi, che ha ottenuto 138 voti. Dietro di lui Maria Pia Veladiano ("La vita accanto", Einaudi): con 74 preferenze supera di un soffio Bruno Arpaia ("L’Energia del vuoto", Guanda), che si ferma a 73. Poi Mario Desiati ("Ternitti", Mondadori), 63 voti e Luciana Castellina ("La scoperta del mondo", Nottetempo) con 45 voti.
Prima della scrematura che ha poi portato in finale questi cinque libri immaginavo addirittura che potessero vincere alcuni di quelli autori che invece sono rimasti esclusi,e mi riferisco al bellissimo libro di Fabio Geda "Nel mare ci sono i coccodrilli"(Dalai) e a quello che io definisco assolutamente imperdibile di Gilberto Severini "A cosa servono gli amori infelici"(Playground) e all'opera di Viola Di Grado "Settanta acrilico trenta lana"(Brossura).
Tornando a ieri sera ha vinto invece,e con un margine assolutamente ampio,il bel libro di Edoardo Nesi "Storia della mia gente"(Bompiani).Il libro racconta la città di Nesi, Prato, invasa dall’immigrazione cinese. Nesi ha messo al centro del romanzo l’impresa di famiglia.Il libro parte dalla nascita del Lanificio T.O. Nesi & Figli, la ditta dei suoi bisnonni, che vede la luce non tanto per il presente quanto per il futuro, per i figli che sono nati e per quelli che verranno. Contro le aspettative iniziali lui si trova a mettere in scena una sconfitta, le armi che vengono deposte nel 2004 con la vendita della fabbrica e la fine della speranza.Si è trovato a fare i conti con l'arrivo della globalizzazione, e con l'incapacità di una classe politica che non ha saputo prevedere le conseguenze. La concorrenza cinese è responsabile solo in parte del fallimento della sua attività. Nel libro c'è una sofferta partecipazione e grande compassione per uomini donne costretti a turni massacranti, a condizioni di vita disumane.
Al secondo posto Maria Pia Valediano con "La vita accanto" ove l'autrice in uno struggente e complesso rapporto madre-figlia racconta senza sconti l'ipocrisia, l'intolleranza, la crudeltà della natura, la prevaricazione degli uomini sulle donne, l'incapacità di accettare e di accettarsi, la potenza delle passioni e del talento. Anche questa una bella opera.
Al terzo posto Bruno Arpia con "L'Energia del Vuoto",la storia, per certi versi da noir,di una famiglia borghese italiana.Coinvolgente.
Al quarto posto Mario Desiati con "Ternitti". La vicenda di un popolo tenace, la tragedia del lavoro che nutre e uccide, la meschinità di un uomo e la fierezza di una donna: tutto si compone con la semplice necessità delle umane cose in un romanzo luminoso e maturo.Un libro,a mio dire,molto bello che,a dispetto del piazzamento di ieri,venderà molto.
E infine l'opera di Luciana Castellina "La scoperta del mondo" che certamente non può essere annoverato come tale perchè è un bellissimo libro con una prefazione straordinaria della figlia.Luciana Castellina, militante e parlamentare comunista, fra i quattordici e i diciotto anni ha tenuto un diario che racconta la sua iniziazione politica: dal giorno in cui, il 25 luglio 1943, a Riccione, la partita di tennis con la sua compagna di scuola Anna Maria Mussolini viene interrotta perché la figlia del Duce deve scappare (suo padre è stato appena arrestato a Roma), a quando si iscrive al PCI. In mezzo, l'evoluzione di una ragazza dei Parioli, con gli occhi aperti sul mondo e sulla storia, titubante nei suoi pensieri e curiosa di capire, i primi viaggi a Praga e nella Parigi del dopoguerra, i primi compagni, il primo gioioso lavoro, insieme a tanti coetanei di tutta Europa, per costruire una ferrovia nella Jugoslavia di Tito, le domande, le ribellioni, le scoperte di uno spirito impaziente di prendere forma. Questo diario, rivisitato e arricchito, ha mantenuto tutta la sua freschezza e la forza della sua testimonianza su un pezzo di storia decisivo per la generazione postbellica.

Ecco,questo è stato il 65°Premio Strega,che va agli archivi con la solita, immutata "fame" e ricerca di buone opere e con l'altrettanto incantevole desiderio di trovare dal giorno dopo in libreria testi che ci facciano immedesimare nelle varie fattispecie e che ci facciano anche sognare.
Allora portiamo in vacanza alcuni(se non tutti)di questi libri,non potremo chiedere di meglio alla vita in questo caldo luglio!
A tutti buona lettura!

giovedì 7 luglio 2011

La sinistra senza coraggio






L'astensione del Pd alla Camera sulla soppressione delle province è stato un errore imperdonabile, che significa voltare le spalle al "movimento invisibile" che ha votato alle amministrative e ai referendum

di MASSIMO GIANNINI


Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini
IMMERSA nella nube di "cupio dissolvi" che troppo spesso la acceca, la sinistra ha perso una formidabile occasione. Astenersi alla Camera 1, nel dibattito sul disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, è stato un errore imperdonabile. È come se l'opposizione, dopo aver trovato un prorompente e promettente varco politico dentro la società italiana che ha votato alle amministrative e ai referendum, gli avesse improvvisamente e inopinatamente voltato le spalle.

Dilettantismo? Opportunismo? Masochismo? Forse tutte e tre le cose. Sta di fatto che la politica, come la vita, è attraversata da fasi. L'esito della doppia tornata elettorale di maggio e di giugno imponeva una scelta inequivoca, che rendesse manifesta la capacità della sinistra di saper "leggere" la fase, e di saperla cogliere con tempestività e mettere a frutto con intelligenza.

La fase suggerisce l'esistenza di un'opinione pubblica sempre più stanca delle menzogne di un governo mediocre e inaffidabile, e sempre più stufa delle inadempienze di una "Casta" ricca e irresponsabile. Il ddl sull'abolizione delle province era la prima opportunità utile, offerta soprattutto al Partito democratico, per dimostrare di saper stare "dentro la fase".

C'era in ballo una ragione tattica, innanzi tutto. Tra molti mal di pancia, l'altroieri il Pdl e la Lega hanno votato contro il testo proposto dall'Idv, rinnegando l'ennesima promessa tradita della campagna elettorale del 2008. La soppressione delle province era nel programma di governo del centrodestra, che ora se la rimangia allegramente, non solo rinunciando a cancellare le province esistenti, ma creandone di nuove. Sbarrargli la strada con un voto compatto di tutte le opposizioni avrebbe significato una quasi certa vittoria parlamentare, una clamorosa sconfitta della resistibile armata forzaleghista e un palese disvelamento delle sue contraddizioni interne.

Ma c'era in ballo soprattutto una ragione strategica. Il "movimento invisibile" che attraversa il Paese (secondo la felice metafora di Ilvo Diamanti) invoca da tempo un sussulto di dignità dall'establishment. Un taglio credibile ai costi della politica (tanto più di fronte all'ennesima burla prevista sul tema dalla manovra anti-deficit da 40 miliardi) resta uno dei temi più sensibili per una quota crescente di opinione pubblica, che subisce con disagio una condizione sociale sempre più dura e insicura e reagisce con indignazione di fronte ai privilegi sempre più intollerabili delle classi dirigenti. Auto blu, aerei blu, stipendi blu, pensioni blu. Tutto è blu, nel meraviglioso mondo del Palazzo.

Gli italiani chiedono alla politica efficienza, produttività, equità. Le misure appena varate dal ministro del Tesoro non gli offrono nulla di tutto questo. L'abolizione delle province era invece il primo test, sia pure collocato su un piano parzialmente diverso, per dare una risposta a questa domanda degli italiani. Il Pd quella risposta gliel'ha negata. E non ha capito che cogliere un "attimo" come questo è il modo migliore per evitare che monti ancora l'onda dell'antipolitica. È il metodo più efficace per contenerla, senza lasciarsi travolgere e poi essere costretti a subirla e a inseguirla. Com'è successo tante volte alla sinistra, dai girotondi di Nanni Moretti ai raduni di Beppe Grillo.

Ai riformisti non si richiede l'agio di lasciarsi "etero-dirigere" dalle masse, rifiutando la fatica necessaria di provare invece a guidarle. Il voto favorevole alla soppressione delle province poteva essere motivato senza cedimenti al populismo e al qualunquismo, perché la buona politica non deve mai ridursi a un'alzata di mano o alla x su una scheda. Il Pd aveva strumenti per inquadrare quel voto in uno schema di riordino complessivo dell'architettura istituzionale, dove non si punta a picconare a casaccio un sistema di autonomie locali codificato dalla Costituzione. Quello che non doveva fare è trincerarsi dietro la difesa di questo sistema, per giustificare la sua codina astensione. Ed è invece esattamente quello che ha fatto. Legittimando così i peggiori sospetti di chi vede in questa mossa malsana l'intenzione malcelata e maldestra di salvare le solite guarentigie e le solite poltrone.

Le province italiane sono 110. Costano al contribuente circa 17 miliardi di euro, cioè quasi la metà dell'importo della stangata a orologeria di Tremonti. Le presidenze di provincia occupate dal Pd sono 40, contro le 36 del Pdl, le 13 della Lega, le 5 dell'Udc. Tutti tengono famiglia. Ma se la sinistra non ha la forza e il coraggio di dimostrare agli italiani che non tutti sono uguali, la partita dell'alternativa non comincia nemmeno. Siamo fermi a Nenni: le piazze si riempiono, ma le urne si risvuotano.

Abolizione delle Province


Ieri ho trovato nella mia casella di posta una mail del Responsabile Nazionale Enti Locali del PD Davide Zoggia con la quale spiega le ragioni dell'astensione del partito nella votazione alla Camera sulla norma costituzionale dell'IdV sull'abolizione delle Province, spiegando e suggerendo il link(partitodemocratico.it/leggeprovince) del sito del Pd ove si può consultare la proposta del partito su questo tema.
Io questa proposta la ho letta e riletta attentamente e francamente,come peraltro sottolinea molto acutamente e con estrema obiettività Emiliano Deiana nel post che quì pubblico e che condivido totalmente,non vi ho trovato,anche tra le righe rispetto al testo ufficiale,un dispositivo attraverso il quale si possa immaginare di arrivare celermente a questa non più procrastinabile riforma.
La mail è così titolata:"Cancellando la parola "Provincie" non si riducono i costi della politica",ove Zoggia dice che la riforma deve essere contestualizzata in un disegno più ampio di riordino delle Autonomie Locali e delle Regioni e che sostanzialmente la soppressione delle province dovrà essere delegata alle stesse Regioni.


di Emiliano Deiana


Questa storia dell'abolizione delle Province si sta trasformando in una fola.

Ieri l'astensione del Gruppo del Pd sulla proposta dell'Idv, oggi le giustificazioni di un nugolo di Deputati, la difesa d'ufficio di molti che ruotano intorno al potere provinciale, alcuni approfondimenti seri sul ruolo degli enti locali nel sistema istituzionale e, buon ultima, l'emersione dal mare di mucillagine parlamentare della proposta del Pd sulla materia.

La montagna che partorisce il topolino.

Il nulla istituzionale, praticamente.

Il Pd dice che le Province non si aboliscono, ma si riformano.

Il Pd dice, nella modifica dell'art. 133 della Costituzione che :«Il mutamento delle circoscrizioni provinciali o la soppressione delle Province sono stabiliti con legge regionale, sentiti i Comuni interessati».

Il Pd dice che sarà lo Stato a individuare le funzioni di Regioni, Province e Comuni.

Questo letteralmente.

In pratica cosa succederà? Nulla.

Anche se il rischio è, delegando il potere alle Regioni, che le Province aumentino esponenzialmente secondo una tendenza di cui noi sardi siamo stati abilissimi precursori.

Le tendenze localistiche, già evidenziate da numerosi Disegni di Legge giacenti alla Camera e al Senato, saranno talmente forti da risucchiare anche le migliori intenzioni di razionalizzazione degli assetti intercomunali.

Non solo Pesaro e Urbino, quindi. Ma anche Montebelluna, Mondovì e Canicattì.

Perchè nella proposta del Pd non c'è scritto da nessuna parte che è vietata la creazione di nuove Province o che è incentivato l'accorpamento. Nella proposta del Pd c'è scritto, sic et simpliciter, che saranno le Regioni a determinare le circoscrizioni provinciali. Punto.

Si parla di soppressione come di una remota possibilità, comunque delegata alle Regioni.

E' questa una riforma?

E' questa la riforma tanto attesa dalla pubblica opinione?

Io credo di no. E con me la stragrande maggioranza degli elettori, storici e potenziali, del Pd.

Col rischio concretissimo che gli elettori potenziali andranno ad ingrossare il Girone degli Astenuti. Lasciando il Pd a languire in una vocazione maggioritaria sempre agognata e mai raggiunta.

Ho sentito dire tante cose: "abbiamo fatto bene a non cadere nella trappola di Idv e Udc", "non bisogna essere demagogici (sarebbe meglio dire demagoghi...), le Province servono. Semmai aboliamo le Regioni e i comuni piccoli e piccolissimi", "alcune Province fanno scuola nell'offerta di servizi", "sapete, poi i Decreti attuativi li avrebbe fatti questo governo".

Queste considerazioni mi fanno pensare che l'unico modo che ci sia di riformare qualcosa in questo Paese sia quello di usare la mannaia. Tagliare, con ferocia.

Così come mi fa molto ridere un Riformismo che non riforma un bel nulla. Manco il tinello di casa.

Un fatto è certo: ieri il Pd ha perso un'occasione incredibile di far esplodere le contraddizioni profonde della maggioranza di Governo.

Il Pd ha perso l'occasione, su un tema concreto e sentito dalla popolazione, di ricompattare la variegata galassia dell'opposizione. Il Pd, per dirla con un personaggio dal quale divergo spesso, Matteo Renzi: il Pd ha rinunciato a tirare un calcio di rigore.

Il Pd ha perso la clamorosa occasione di essere se stesso: un Partito che vuole il cambiamento, che lo attua nei modi e nei tempi che la contingenza di essere all'opposizione consentono.

Alcuni, fra i difensori d'ufficio, li ho visti arrampicarsi clamorosamente sugli specchi: ma che fine faranno i dipendenti delle Province? E la manutenzione delle scuole superiori? E le strade?

Poi altri li ho sentiti aggiungere: ma le Province svolgono un fondamentale ruolo nella programmazione sistemica del territorio. Come se ne può fare a meno?

Poi per fortuna è venuto in mio soccorso un Consigliere Provinciale del Pd. Un Consigliere del Pd, giovane, un riformista vero. Eletto appena un anno fa. Ed ha detto poche, ma definitive parole: sono anche io per l'abolizione delle province. Ed ho maturato questa convinzione in questo anno di esperienza all'interno del Consiglio Provinciale.

Si chiama Giuseppe Meloni. Ha trent'anni o poco più. Un riformista vero.

Non come quelli che si definiscono tali e non riformano manco il tinello di casa.

Una Non-Riforma ben esemplificata dall'assurda proposta del Pd alla Camera dei Deputati.

mercoledì 6 luglio 2011

Il riformismo tradito














Ieri,mentre pubblicavo un post sul Pd quale unico punto di riferimento dei riformisti italiani e sardi,alla Camera dei Deputati lo stesso Pd,su una proposta di legge costituzionale dell'IdV che prevedeva l'abolizione delle Province,si asteneva e così i voti favorevoli degli stessi dipietristi e del terzo polo,considerato il voto contrario del PDL e della Lega, non sono ovviamente bastati a cancellare questi enti.
Sono rimasto di sasso!
Qualche giorno fa nel Consiglio Regionale della Sardegna su un emendamento che prevedeva il divieto di cumulo del vitalizio di deputato regionale e parlamentare nazionale e europeo il Pd,anche in questa occasione,si è astenuto.
Francamente non ho capito nemmeno questa posizione!
Sempre ieri il consigliere provinciale del Pd del mio collegio,che io stimo e apprezzo molto,facendo su facebook un resoconto della seduta del Consiglio Provinciale dove,udite udite,a distanza di 12 mesi dal suo insediamento,si discuteva di dichiarazioni programmatiche del Presidente, con un fuggi fuggi generale da parte dei componenti della stessa maggioranza di centrodestra oramai completamente alla frutta,con una nota a margine scriveva che se fosse stato alla Camera,alla luce di quanto accade a Oristano e quindi,suo malgrado, della negativa esperienza maturata all'interno di quella Provincia, avrebbe votato per la cancellazione delle Province.
Serio ed affidabile come sempre Roberto!
Tornando a quanto accaduto ieri alla Camera,una norma costituzionale presentata da Di Pietro per abolire le Province,io credo che il Pd abbia preso una cantonata incredibile,il messaggio politico è certamente devastante,non è pensabile che un partito che è nato con la peculiarità non negoziabile del riformismo tradisca questo connotato essenziale con estrema leggerezza e irresponsabilità.

martedì 5 luglio 2011

Verso il Partito Democratico Sardo













Dopo aver lavorato ,qualche anno fa, con estrema convinzione,determinazione e molto entusiasmo per contribuire a far nascere anche nel mio territorio il Partito Democratico,inteso come nuovo,unico e fondamentale soggetto politico del riformismo italiano,ho recentemente attraversato un periodo molto delicato rispetto a quelle originarie convinzioni, per via delle continue,estenuanti e sterili lotte intestine nazionali e regionali.
La primavera del 2004,con la fantastica discesa in campo di Renato Soru e quella straordinaria campagna elettorale che ho vissuto molto intensamente mentre ricoprivo anche l'incarico di Presidente di una Comunità Montana, rappresentò per me e per molti amici dell'allora Margherita, dei Democratici di Sinistra e di Progetto Sardegna l'apice di quell'impegno e soprattutto la persuasione che quell'esperienza andava certamente ad anticipare il progetto nobile,con riferimento allo spirito che avrebbe portato al Partito Democratico,che di li a poco avrebbe visto la luce.
Quella legislatura regionale,dal punto di vista dei risultati conseguiti e nonostante le note fibrillazioni nel nostro partito e la prematura conclusione della stessa,rimane,a mio dire, una delle più qualificanti nella storia dell'Autonomia.
Ecco dunque, il mio tristissimo disincanto per quello che era un sogno che si era appena realizzato iniziò proprio allora,quando Tramatza per il PD sardo era diventato non un luogo di confronto leale teso a dare anima,cuore e gambe al partito attraverso un dibattito franco e costruttivo, ma un'arena dove ci si sfidava apertamente anche attraverso le imboscate tipiche dei muretti a secco per chissà quale recondito motivo.
Si diceva che quella tristissima pagina cominciava in consiglio regionale e da li trovava poi a Tramatza il luogo fisico "ideale" per un regolamento di conti che coinvolgeva l'allora governatore Soru,la giunta regionale,il gruppo consiliare e magari la stessa dirigenza nazionale.
Non ho mai capito,mi sia consentito sottolinearlo,quel periodo,non ho mai capito,al di la di quello che si leggeva sulla stampa o di quelle motivazioni addotte da questo o quell'altro amico leader regionale o amico parlamentare,certamente non obiettive posto che ognuno aveva la propria componente da difendere e a cui far riferimento anche in vista di un possibile e poi reale naufragio del governo regionale e delle succesive elezioni.Non ho capito soprattutto come sia stato possibile dilapidare un così importante patrimonio politico-programmatico quale era quello proposto da Renato Soru e sposato con percentuali bulgare dai sardi.
Ancora non lo ho capito!
Tuttavia,questo rappresenta il recente passato.
Passato perchè in questi ultimi tre anni ci siamo ritrovati,a prescindere da quello che è il nostro giudizio di democratici su quell'esperienza, con una Regione totalmente allo sbando che imposta la sua programmazione esclusivamente su spot gratuiti(in termini di risultati concreti per i sardi evidentemente,non certo per quanto realmente vengono a costare!)di cosiddette flotte sarde composte da due traghetti presi a nolo per il periodo giugno-settembre che viaggiano vuoti,mentre le nostre scuole continuano a chiudere,la nostra cultura non viene finanziata,la nostra sanità versa in uno stato comatoso,i nostri enti locali non solo non ricevono nuove e aggiuntive risorse ma vengono ogni giorno di più vessati come se garantire servizi fondamentali ai propri amministrati rappresentasse qualcosa da osteggiare!
Questo è lo stato dell'arte nella nostra carissima e bellissima isola.
In questo contesto si inserisce,deve essere contestualizzato,il percorso del partito democratico della Sardegna verso quell'approdo sancito da una votazione dell'assemblea regionale di marzo che prevede la nascita del PD sardo con il congresso straordinario di gennaio,attraverso la tappa,io dico molto importante,dell'assemblea programmatica.
Tornando a me,nel corso di questi ultimi mesi ho recuperato,con riferimento al mio sentirmi democratico dalla testa ai piedi,lo smalto,le convinzioni e le motivazioni dei giorni migliori,mi sento completamente impegnato come dirigente del partito a dare il mio piccolissimo contributo alla causa comune,sono anche orgoglioso di far parte nuovamente dell'amministrazione comunale del mio Comune(Nureci)come democratico,e di poter eventualmente essere utile alla crescita della mia comunità a cui mi sento molto legato.
Tempo fa,tanto tempo fa,ai tempi della mia militanza nel Partito Popolare,nel corso di una ristretta riunione a Cagliari alla presenza di un esponente di primissimo piano di quel partito,dopo un mio intervento,quest'ultimo,non conoscendomi, chiese al suo portaborse a quale componente facevo riferimento,sentendolo precedetti il tizio nella risposta sottolineando che pensavo di essere li per motivazioni molto più gratificanti rispetto ad una millantata rivendicazione di corrente.
Oggi,alla vigilia dell'avvio della nostra assemblea programmatica,voglio rivendicare l'orgoglio di essere Democratico cui sta infinitamente a cuore che il mio partito riesca,a cominciare dall'ambito regionale,ad assurgere definitivamente al ruolo per il quale è stato pensato,il punto di riferimento indiscusso per tutti i riformisti,per una Sardegna e per un'Italia migliori.
Se ne sente la necessità!