giovedì 30 settembre 2010

L'impennata indipendentista della Sardegna.



(Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella)


«Guidare la Sardegna verso una piena e compiuta indipendenza». Chissà cosa direbbe Francesco Cossiga a leggere la mozione del consigliere regionale Paolo Maninchedda. Passava ore, l' ex presidente da poco scomparso, a parlare del suo orgoglio sardo: «Siamo una nazione incompiuta. Abbiamo tutto (lingua, leggi, costumi, cultura, identità territoriale) per essere una nazione. Non lo siamo perché abbiamo rinunziato all' autonomia per amore dell' Italia C' è chi ha detto che la Svizzera è una "nazione di volontà": ecco, si può dire che la Sardegna è italiana per volontà». Una nazione. Divisa in paesi. E i paesi in clan: «In sardo non esiste manco la frase: «come fai di cognome». Uno dice: «come ti narri»? Io rispondo: Franziscu. Nome proprio. Poi: «di che ratza sese?». Di che razza sei? Gruppo famigliare e paese. Rispondo: deo so de sos Còssiga de Zaramonte. Sono un Cossiga di Chiaramonti». E così, vezzosamente, voleva essere chiamato: Ceccio da Chiaramonti. Ma mai avrebbe potuto sottoscrivere quella mozione di Maninchedda. Dove si dice proprio così. Che «del territorio della Sardegna decidono i sardi e non lo Stato italiano». E che la giunta deve impegnarsi «a guidare la Sardegna verso una piena e compiuta indipendenza, avviando con lo Stato italiano una procedura di disimpegno istituzionale che preveda un quadro articolato di indennizzi per la Nazione sarda, in ragione di tutte le omissioni, i danni e le sperequazioni che la Sardegna ha subito prima dal Regno d' Italia e poi dalla Repubblica italiana». Non autonomia: «indipendenza». Brutalmente: secessione. Cos' è: una testa calda? Macché: un docente di buone letture. Che col Partito Sardo d' Azione appoggia la giunta di Ugo Cappellacci. Le altre otto o nove mozioni presentate per modificare lo statuto regionale, del resto, non sono meno combattive. C' è chi chiede, come la sinistra e l' Udc, di riscrivere il patto fra la Regione e lo Stato. Chi, come il Pdl, vuole una proposta di legge costituzionale da inviare alle Camere per «affermare il diritto del Popolo sardo al suo pieno autogoverno». Per non dire di quella di un gruppo con in testa Renato Soru che riafferma «la sovranità del Popolo sardo sulla Sardegna, sulle sue isole minori, sul suo mare territoriale, sovranità frettolosamente abbandonata nelle mani della Monarchia sabauda in cambio della "fusione perfetta con gli Stati della terraferma"» e «denuncia la concessione della perfetta fusione deliberata dal Re di Sardegna Carlo Alberto» considerando «politicamente conclusa la vicenda storica conseguente alla rinuncia alle proprie sovranità istituzionali, avvenuta il 29 novembre 1847». Parole durissime. Tanto più perché pronunciate alla vigilia dei 150 anni dell' Unità in una terra che ha dato all' Italia non solo il primo contenitore istituzionale, cioè il Regno di Sardegna, ma il primo martire (quell' Efisio Tola di cui parla Manlio Brigaglia a pagina 17) e una lunga serie di protagonisti della nostra storia. In particolare in quell' incredibile quadrilatero intorno alla parrocchia di San Giuseppe di Sassari che ha visto crescere nei dintorni - anche se non tutti, ovviamente, andavano in chiesa -, due capi dello Stato (Francesco Cossiga e prima di lui Antonio Segni), due segretari del Pci (Palmiro Togliatti che fece il liceo a duecento metri ed Enrico Berlinguer che abitava a due passi), un leader referendario che per qualche tempo sembrò avere in pugno l' Italia (Mario Segni) e una sfilza di ministri, da Giuseppe Pisanu a Sergio Berlinguer, da Luigi Berlinguer ad Arturo Parisi. Certo, Palmiro Togliatti sorrideva della retorica del Risorgimento: «È per il piccolo borghese italiano come la fanfara per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi, per credersi un eroe». Ma certo sarebbe rimasto sbalordito da un' impennata indipendentista come quella che, senza che a Roma se ne siano ancora accorti, è partita dalla Gallura a capo Teulada. Come sarebbe rimasto stupito Indro Montanelli, che nel 1963 percorse per il Corriere l' isola (dove aveva frequentato il liceo al seguito del padre preside a Nuoro) e scrisse che «nelle loro rivendicazioni i sardi si sono mostrati molto più prudenti, cauti e misurati» dei siciliani. «Quello che sta accadendo», spiega Mario Segni, «è una follia totale. La conseguenza di una situazione di profonda crisi nell' economia e nella società. Il fatto preoccupante è che comincia a essere un argomento di moda, fra gli intellettuali come nel sindacato. La classe politica, inetta, trova comodo scaricare le proprie responsabilità su Roma. E non è solo una questione limitata a pochi matti sardisti, se consideriamo che perfino 14 consiglieri del Pd hanno firmato una mozione nella quale si rivendica il concetto di sovranità. Insomma, è una situazione pericolosissima». Tanto più in un momento come questo. Con la giunta Cappellacci nel caos. Il governatore che un anno e mezzo fa, trainato dai comizi del Cavaliere, sconfisse Soru innescando una reazione a catena culminata con le dimissioni di Walter Veltroni, è sotto assedio. A sinistra, come a destra, gli imputano di essersi fatto coinvolgere nella vicenda del business eolico dal faccendiere Flavio Carboni. Né gli sono risparmiate critiche per i silenzi sulla gestione del G8 della Maddalena. Prodi aveva promesso a Soru, insieme a un pacchetto da 400 milioni per sistemare pendenze in ballo da decenni, il rifacimento della statale fra Olbia e Sassari. Si sa com' è finita. L' appuntamento è stato spostato a L' Aquila. La strada e tante altre cose non si sono più fatte e ai sardi è rimasta la rabbia per il fiume di denaro sprecato, gli scandali della «cricca» e tutto il resto. La miccia indipendentista pareva a lenta combustione. Ma rischia di bruciare più rapidamente in una regione dove l' economia è a pezzi e la politica non riesce a dare risposte. O peggio si arrocca nella difesa di realtà indifendibili, come le province regionali passate da quattro a otto sotto la precedente giunta destrorsa (ma senza troppe lagne della sinistra...) e rimaste nonostante Soru le avesse bollate come «una pazzia» tentando di abolirne quattro con un referendum. Otto giunte, otto consigli, otto sedi, otto amministrazioni. Anche dove c' è una manciata di abitanti, come nella Provincia dell' Ogliastra che ha come capoluogo Lanusei: 5.665 anime. Un ventesimo scarso degli abitanti di Giugliano. Pascolano i consiglieri provinciali, pascolano i consiglieri regionali (uno ogni 19.266 abitanti: in Lombardia uno ogni 113.858), pascolano meno bene le greggi dei pastori cantati da Tonino Ledda: «Terra brujada est custa/ e d' est bocchende/ semen in sinu e brios in sas venas...» Terra bruciata è questa, e sta uccidendo semi nel seno e brio nelle vene... La pastorizia attraversa la crisi più grave del dopoguerra. Nei magazzini giacciono 60 mila quintali di pecorino. Era l' oro della Sardegna. Non lo è più. Il prezzo del latte ovino è precipitato. «Me lo pagano mediamente 60 centesimi al litro, trenta o quaranta in meno di quanto mi costa produrlo», si sfoga Agostino Maddau, che ha trecento pecore dalle parti di Stintino, «È impossibile tirar avanti. Impossibile». La crisi economica pesa, ma non spiega tutto. Negli ultimi due anni le esportazioni sono crollate. Colpa soprattutto degli Stati Uniti. Ma non perché gli americani, travolti dal crac delle banche, abbiano tagliato i consumi di pecorino. Gli è che non lo acquistano più tutto dalla Sardegna, ma anche dalla Spagna, della Grecia, dalla Romania. Direte: che c' entra la Romania? La risposta la trovate, per fare un esempio, aprendo il sito www.lactitalia.ro della rumena Lactitalia. Dove si spiega che il caseificio di Izvin tratta circa centomila litri di latte al giorno e produce Ricotta salata pressata, Toscanella, Mascarpone, Mozzarella, ricotta Pecorino. Tutti squisiti formaggi italiani dal nome italiano e tradizione italiana. Fatti vicino a Timisoara. Con effetti, secondo la Coldiretti, devastanti se è vero che anche a causa della concorrenza dei formaggi «italiani» fatti all' estero avrebbero chiuso dal 2004 ad oggi in Sardegna un migliaio di allevamenti. Il punto è che in Lactitalia non solo l' azionista di maggioranza è la sarda Roinvest che fa capo alla famiglia Pinna, ma tra i soci c' è lo Stato italiano: il 29,5% è infatti della Simest, una società al 76% del ministero dello Sviluppo economico costituita per sostenere l' espansione all' estero delle nostre imprese. «Con l' ombrello della internazionalizzazione», accusa il direttore della Coldiretti sarda, Michele Errico, «un' azienda pubblica, magari in buona fede, sta finanziando la concorrenza sleale». Andrea e Paolo Pinna respingono le accuse sdegnati: «Per un breve periodo dell' anno è presente in loco latte di pecora con cui viene prodotto un pecorino da grattugia dello stesso tipo di quello che da anni si produce in Francia, in Bulgaria, in Siria, negli stessi Usa e in tanti altri Paesi, venduto poi sul mercato internazionale delle commodity industriali a basso costo. È un formaggio assolutamente diverso dal Pecorino Romano Dop per gusto, per forma, per marchiatura sulla crosta». Che c' entra il pecorino romano? Vi sembrerà impossibile, ma questo è uno dei tanti «furti» dei quali i sardi si lamentano: il 90% del pecorino romano è sardo. Uno spreco assurdo di marchio, di cultura casearia, di identità. Vissuto in modo più doloroso oggi, con i pastori che occupano aeroporti e piazze per gridare la loro disperazione. Le 12.750 aziende per un totale di 30 mila pastori sono al collasso: se saltano loro salta il 35% dell' agricoltura sarda. Che già soffre per altri motivi. Non escluse, insiste Mario Segni, le responsabilità politiche: «Da un anno Bruxelles ha versato alla Sardegna più di 100 milioni per il miglioramento fondiario. Denari che la Regione doveva distribuire agli agricoltori. Che non hanno visto ancora un euro». «Macché cento milioni: molto di più!», accusa Felice Floris, che per i pastori rappresenta un po' quel che è Bové per i contadini francesi. «Per il periodo dal 2008 al 2013, l' Ue ha varato un piano di sviluppo rurale da un miliardo e 180 milioni. Ma ancora non è arrivato niente. E abbiamo una paura: che il grosso di questi soldi finisca per alimentare il parassitismo. La macchina burocratica attaccata alla politica». Nel 2009, dice la Banca d' Italia, i raccolti si son ridotti del 13,7%: quattro volte la media nazionale. Ancora Floris: «Annate di siccità paurose. Autunni bruttissimi. Concimi passati da 20 a 110 euro. E poi i ricatti del mercato. A noi sta bene il mercato, ma mettano delle regole!». Per i cereali è stato un annus horribilis: -46,1%. Baingio Maddau, il padre di Agostino, ci trascina a vedere un enorme mucchio di grano. Ne prende un pugno, se lo fa scorrere fra le dita: «Sa quanto mi danno? 12 euro al quintale! Dodici euro! Vergogna! Piuttosto lo dò alle galline!». Ce l' ha con i grossisti, ce l' ha con l' Europa, ce l' ha con Luca Zaia che «ha pensato alle quote latte dei suoi elettori e non a noi». Dice che ha 120 vacche da carne e «un tempo erano una ricchezza», ma oggi per vacche di 6 quintali «sono arrivati a offrirmi 600 euro: un euro al chilo!» Felice Floris conferma: «Zaia ha condonato un miliardo e 600 milioni di multe alle aziende dei suoi elettori, ma poi quei soldi li pagheremo noi perché Bruxelles distribuirà i tagli a tutti». Certo, la Sardegna è cambiata. Non ci sono più contadini come Ciccio Azzara così ignari del mondo da vendere per 160 mila lire a ettaro (si comprò una Fiat 600 e «un po' di terra buona ad Arzachena») la favolosa insenatura di Liscia di Vacca dove, raccontò Mino Monicelli, le mucche andavano «al pascolo a nuoto, le corna alte sull' onda, dalla spiaggia di Pevero agli scogli Limbani, verdi e gialli nel mare verde e viola». Tanti problemi, però, sono rimasti intatti. L' isola, per usare le parole di Montanelli (e sono passati 47 anni!) non è ancora riuscita a «liberarsi dal monopolio strangolatore della Tirrenia». E mentre perfino il turismo pare in risacca (nel 2009 il calo delle presenze in Gallura, che pesa per il 40%, è stato del 4%.) alla drammatica crisi della pastorizia si salda la crisi del sogno industriale. I dati sono da brivido. Nel primo trimestre 2010 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 16,1%: il più alto fra tutte le regioni. «In due anni abbiamo perso 24mila posti nella sola industria. Ma se aggiungiamo i 100mila sardi che beneficiano di qualche ammortizzatore sociale, si arriva al 26 o 30%», stima il segretario della Cisl sarda Mario Medde. Centomila: un lavoratore su sei è in cassa integrazione o riceve un sussidio. Per non dire dei giovani: «Quelli senza lavoro sono il 44%. L' emigrazione intellettuale è devastante. Il 21,4% delle famiglie versa in condizioni di povertà». Nel 2009, stando sempre alla Banca d' Italia, le esportazioni sono precipitate del 43,9%, il doppio abbondante rispetto al resto del Paese. Un crollo che si aggiunge a quello del 2008 quando l' export della provincia di Sassari era smottato del 23%, scendendo a un decimo di quelle di Alessandria o Ravenna. Confronti da spavento: provincia di Sassari vuol dire Porto Torres. E Porto Torres era il nodo del grande sogno industriale che dopo aver vinto la scommessa di strappare la Sardegna alla malaria (sulla spalliera di un ponte sul Cedrino si leggeva: «Vincerà l' uomo o la zanzara?») pensava di strappare i sardi alla miseria e alla emigrazione. Hanno fatto soldi in tanti, a Porto Torres. Su Porto Torres. Come Nino Rovelli, il brianzolo patron della Sir che chiuse la sua spericolata avventura lasciando un buco pari a 14 miliardi di euro attuali. Poi, uno alla volta, come avevano immaginato Indro Montanelli e Guido Piovene, hanno spento gli impianti. In crisi l' alluminio, in crisi il polo tessile, in crisi il polo chimico. Con l' Eni decisa a chiudere e andarsene a dispetto di quanto accanitamente sostengono gli operai e cioè che «un grande Paese non può rinunciare alla chimica e la chimica come spiega Legambiente possiamo farla solo noi, che abbiamo imparato a nostre spese come occorrano grande professionalità e grande attenzione alla natura». E non è un caso che questa doppia crisi della Sardegna pastorale e della Sardegna industriale trovi il suo punto simbolico all' Asinara. L' aspra, stupenda, struggente isola in faccia a Stintino che ha ospitato secoli di uomini ammaccati dalla fatica e dal dolore. Prima i pastori chiusi in una «isolitudine» disperata. Poi i reduci deportati qui in quarantena dopo viaggi di emigranti verso la Meriche interrotti da spaventose epidemie di colera. Poi i galeotti trascinati nei penitenziari. E infine Piero Marogiu e gli altri operai lasciati a spasso dalla Vinyls che da 212 giorni si sono «auto-carcerati» in un edificio dell' isola-galera inventandosi «l' isola dei cassintegrati». Grande idea mediatica. Che ha consentito loro di trascinare lì un sacco di gente. E ottenere ieri un incontro con Berlusconi. Ce la faranno i nostri eroi a vincere? Mah... In uno stanzone hanno steso uno striscione: «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso». Ogni giorno, sul loro blog, tengono un diario. Quando cala la sera la solitudine li prende alla gola. Da dietro le sbarre, con il pensiero alle famiglie in terraferma, il mondo pare quello cantato da Lucio Dalla: «Dalla finestra lui vedeva solo il mare/ed una casa bianca in mezzo a blu...».

lunedì 20 settembre 2010

La solitudine dei numeri due.


(Ernesto Galli Della Loggia)
C’è un solo, vero vantaggio s t r a t e g i c o che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no. Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un’autorità delegata, revocabile in ogni momento.

La scelta di Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l’ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni. Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d’indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi.

Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo. Mi sembrano tre i motivi principali.

Perché, innanzi tutto, non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non aver scelto l’identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici », lungi dal dare al part i t o e x c o m u n i s t a un’identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all’opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un’accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo » italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo », non sostituito da niente, sembra svanita l’idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d’identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.

Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l’interesse politico complessivo.

A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione del proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l’interesse delle varie minileadership fa corpo con l’aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.

C’è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l’ostilità all’idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall’essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall’enfasi spasmodica posta sull’antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l’effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l’altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares».

Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblico allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere.

Tre tappe per arrivare al federalismo fiscale.Ecco il calendario del percorso di avvicinamento.


(Marco Biscella,Cristiano Dell'Oste,Giovanni Parente)
Otto anni, quasi due legislature. La strada che porta al federalismo (guarda l'infografica con tutti i passaggi anno per anno) – tracciata dalla bozza di decreto legislativo definito dal governo – vedrà il traguardo solo all'inizio del 2019, quando andrà a regime il nuovo fisco di regioni, province e comuni. Prima bisognerà superare due fasi: quella preparatoria, che si chiuderà con la quantificazione dei costi standard; e quella sperimentale, in cui il nuovo meccanismo verrà gradualmente messo in rodaggio.

In pratica, si tratta di abbandonare definitivamente il modello storico dei finanziamenti a piè di lista. Addio, dunque, ai trasferimenti statali che coprono tutte le spese decise da sindaci e governatori. Sarà stabilito il costo "giusto" delle prestazioni essenziali – quali la sanità o la scuola – e in base a quel parametro sarà modulato l'intervento centrale. Quindi, se una regione spenderà più del dovuto (perché ha amministratori spreconi o vuole offrire più servizi), dovrà cavarsela da sola. Al contrario, le aree povere che non ricaveranno dai propri tributi le risorse sufficienti a finanziare i servizi di base, potranno contare sull'àncora di salvataggio del fondo perequativo.

Il sistema, una volta a regime, promette di innescare una selezione virtuosa delle classi dirigenti, perché renderà ancora più trasparente la governance a livello locale. E anche perché gli amministratori avranno la possibilità di manovrare la leva tributaria: per esempio, riducendo o eliminando l'Irap, oppure aumentando l'addizionale Irpef fino al 3% in più.

Nella fase di passaggio sarà decisiva la funzione della compartecipazione ai tributi nazionali. Oggi le regioni ricevono una grossa fetta dell'Iva (44,7%), ma questo importo viene suddiviso in modo tale da farlo funzionare come un "trasferimento mascherato".

A dimostrarlo ci sono i numeri riportati nelle tabelle, estrapolate dal "Cruscotto di indicatori socioeconomici", «uno strumento che conta 55 indicatori – spiega Federico Caner, capogruppo Lega Nord della Regione Veneto, che lo ha elaborato in collaborazione con Università Bocconi e Centro studi Sintesi – che verrà messo a disposizione, in via telematica, dei gruppi consiliari della Lega, presenti in nove regioni, per aiutarli nelle loro decisioni amministrative».

Se si guarda il peso dei tributi propri sul totale delle entrate, si scopre che oggi la regione con il più elevato indice di autonomia territoriale è il Lazio, seguito da Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte. In queste zone, la maggiore ricchezza delle basi imponibili e le scelte di politica fiscale fanno sì che il prelievo locale copra almeno il 45% delle entrate complessive. In Basilicata, invece, l'incidenza dei tributi propri sul totale è appena superiore al 20 per cento. Se però si include anche la compartecipazione, la Basilicata raggiunge il Lazio. Detto diversamente, la regione lucana riceve 1.719 euro per ogni abitante, contro i 741 del Lazio e i 1.037 della Lombardia.

Tutte queste cifre saranno rimodulate, anche per effetto del diverso criterio che dal 2013 detterà la suddivisione del gettito Iva, tenendo conto del luogo in cui avviene il consumo. L'adeguamento, però, sarà graduale: dal 2014 dovrebbe entrare in funzione il fondo perequativo, ma per il primo anno le risorse saranno ancora assegnate a copertura dei costi storici, mentre per i quattro anni successivi si avvicineranno progressivamente al livello dei costi standard. Indicazioni, queste, che attendono conferme dall'incontro governo-regioni in calendario giovedì.

Dalla partita non sono esclusi i comuni, che anzi saranno i primi a testare l'effetto federalismo: lo schema di Dlgs varato prima delle ferie prevede per gennaio dell'anno prossimo il debutto della cedolare secca sugli affitti.

sabato 18 settembre 2010

Un partito senza identità.


(Angelo Panebianco)


Seguendo le sorti del Popolo della Libertà anche il Partito democratico è sull’orlo di una implosione? La mossa di Walter Veltroni, l’aggregazione di un «movimento» di contestazione della segreteria, non è solo un episodio dell’annoso duello fra Veltroni e Massimo D’Alema. La gravità delle condizioni in cui versa oggi il Pd è tale che difficilmente l’esito potrà essere qualcosa di diverso da una frattura irreversibile. La ragione di fondo è che il Pd è un partito di opposizione che non riesce a trarre profitto, in termini di consensi, dalle gravi difficoltà della maggioranza di governo.

E non può trarne profitto perché non è un corpo sano ma malato. C’è qualcosa di drammatico, e di rivelatore sia dei limiti delle classi politiche sia delle tendenze profonde del Paese, nel fatto che tutti i tentativi di costruire grandi forze «riformiste» falliscano in Italia. L’operazione non riuscì negli anni Sessanta dello scorso secolo con l’unificazione socialista. Poi non riuscì a Craxi. Infine, non è riuscita al Partito democratico. Per un verso, non c’è, e non c’è mai stata, per così dire già «preconfezionata», una domanda di riformismo sufficientemente forte e ampia nell’elettorato di sinistra.

Per un altro verso, ci sono limiti nella cultura politica delle classi dirigenti della sinistra che le hanno sempre rese incapaci di creare, con le loro azioni, le condizioni perché quella domanda crescesse e si diffondesse. Alla debolezza dal lato della domanda hanno sempre corrisposto la fragilità e l’incoerenza dal lato della offerta. Si guardi a cosa è successo dopo le elezioni. Mandato via Veltroni, il Pd non è stato più capace di trovare un baricentro politico. Alla più conclamata che praticata «vocazione maggioritaria » di Veltroni (che commise il fatale errore dell’alleanza con Di Pietro) si è sostituita una sorta di rassegnata presa d’atto del carattere irrimediabilmente minoritario del Pd. Da qui la ricerca di alleanze purchessia, l’oscillazione fra velleitari progetti di Union sacrée contro Berlusconi (tutti dentro, da Di Pietro a Fini), tatticismi politici (alleiamoci con i centristi di Casini, magari offrendo loro anche la presidenza del Consiglio) e fumosi slogan (il nuovo Ulivo).

Risultato: il Pd è oggi un partito senza identità, alla mercé degli incursori esterni, da Di Pietro a Vendola. Anziché elaborare proposte, costruirvi sopra una identità chiara, e solo dopo tessere le alleanze in funzione delle proposte e dell’identità, il Pd è partito dalla coda, dalle alleanze. Impantanandosi, non riuscendo a stabilire un rapporto forte con l’opinione pubblica. Dirlo è un po’ come sparare sulla Croce Rossa ma è un fatto che nulla può dare il senso della crisi di un partito di opposizione più della sua paura di nuove elezioni. Si spezza il rapporto fra Berlusconi e Fini? La maggioranza è a rischio? Che altro dovrebbe allora fare il maggior partito di opposizione se non chiedere, a gran voce, elezioni immediate? E invece no. Per paura delle elezioni si trincera dietro il pretesto della urgenza di una riforma elettorale (dimenticandosi di spiegare perché, se era così urgente, non la fece quando aveva la maggioranza, all’epoca dell’ultimo governo Prodi). È un vero peccato. La democrazia italiana avrebbe bisogno di un solido partito di sinistra riformista, sicuro di sé, delle proprie ragioni, della propria identità. Ma non è questo oggi l’identikit del Partito democratico.

Oggi Enrica compie un anno:hai straordinariamente riempito la vita di mamma e babbo.Grazie Amore.


E' per te che sono verdi gli alberi e rosa i fiocchi in maternità
E' per te che il sole brucia a luglio
E' per te tutta questa città
E' per te che sono bianchi i muri, che la colomba vola
E' per te il diciannove settembre
E' per te la campanella a scuola

E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE
E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE

E' per te che a volte piove a giugno
E' per te il sorriso degli umani
E' per te un'aranciata fresca
E' per te lo scodinzolo dei cani
E' per te il colore delle foglie, la forma strana delle nuvole
E' per te il succo delle mele
E' per te il rosso delle fragole

E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE
E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE

E' per te il profumo delle stelle
E' per te il miele e la farina
E' per te il sabato nel centro, le otto di mattina
E' per te la voce dei cantanti, la penna dei poeti
E' per te una maglietta a righe
E' per te la chiave dei segreti

E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE
E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE

E' per te il dubbio, la certezza, la forza, la dolcezza
E' per te che il mare sa di sale
E' per te la notte die natale

E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE
E' per te ogni cosa che c'è
NINNA NANNA NINNAE

venerdì 17 settembre 2010

La deflagrazione.


(Massimo Franco)
Fra Pier Luigi Bersani e Walter Veltroni si è aperta una dinamica simile a quella tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Con un processo imitativo involontario, il maggior partito d'opposizione sta seguendo e copiando lo smottamento del Pdl. Lo smarcamento deciso ieri dall'ex segretario segna l'inizio di un fuoco di sbarramento contro la candidatura di Bersani a Palazzo Chigi: un epilogo che, senza l'iniziativa della minoranza del Pd, sarebbe stato scontato o per convinzione o per forza di inerzia.


Non è escluso che alla fine il centrosinistra si orienti comunque su questo leader, che ha ancora la maggioranza del partito. Ma certamente la scelta passerà attraverso momenti di tensione.
Perfino il linguaggio polemico ricorda la rissa Berlusconi-Fini. Gli uomini di Bersani accusano Veltroni di avere fatto un autogol proprio mentre la maggioranza di governo è in grande affanno. I veltroniani replicano che con il loro movimento vogliono aiutare il partito, non romperlo. Il segretario si irrita e dice che il Pd non è il Pdl. E dunque Veltroni non può fare «come Fini» e dire «sto dentro e sto fuori». Sembra di ascoltare gli scudieri del Cavaliere che parlano del presidente della Camera. Anche se non è prevedibile una cacciata della minoranza come quella decisa contro i ribelli finiani: il Pd è effettivamente diverso. Ma il rischio di un incattivimento dei rapporti già è scritto.
Per paradosso, però, quanto sta accadendo nel centrosinistra non deve sorprendere: è la conseguenza speculare e prevedibile della crisi del centrodestra. Nel momento in cui la leadership di Silvio Berlusconi è rimessa in discussione, traballa l'intero sistema che il premier ha di fatto plasmato in questi anni; e dunque anche l'opposizione che sull'antiberlusconismo ha costruito le sue vittorie e ultimamente le sue sconfitte. L'offensiva veltroniana è resa possibile proprio perché tutti cercano una posizione di partenza privilegiata in vista di un eventuale voto. Sui motivi che hanno spinto l'ex segretario a riprendersi la minoranza del Pd, spostando la maggioranza degli ex popolari dalla sua parte, circolano molte ipotesi.


Ma le più convincenti sono quelle che raffigurano un Veltroni impaziente di tornare in gioco e rompere lo schema non solo bersaniano, ma di Massimo D'Alema: il tentativo di compattare il Pd su un'identità socialdemocratica, come se fosse un Pci postcomunista; tentare di agganciare l'Udc e comunque quanti si oppongono al bipolarismo e vogliono una riforma elettorale che ne riduca la portata; e dopo eventuali elezioni anticipate far pesare il ruolo del maggior partito d'opposizione in uno schema diverso, ed in un Parlamento che ritorna il cuore delle alleanze. Non a caso Veltroni vuole un «Papa esterno» che si candidi come Romano Prodi nel 1996 e nel 2006. E Bersani, invece, si percepisce come «nuovo Prodi».
Sono due logiche diverse ed in contraddizione insanabile: aggravate da una buona dose di risentimento veltroniano per il modo in cui è stato defenestrato dalla leadership dei democratici; e dalla determinazione di Bersani a far valere le regole della maggioranza del Pd, e ad accreditare Prodi come «il Papa più interno» che l'Ulivo abbia avuto. Ma il segretario sa bene che da ieri la minoranza ha messo un macigno sulla sua marcia verso la candidatura a presidente del Consiglio; e che il prossimo terreno di scontro saranno le mitiche primarie chiamate a benedire la leadership da opporre a Berlusconi se si va a votare.
Ma Bersani è anche consapevole che un'eventuale caduta di questo governo cambierebbe tutto. E spera in Umberto Bossi, in Gianfranco Fini: in chiunque tolga il Pd ed il centrosinistra dalla subalternità nella quale si è cacciato negli ultimi anni.

giovedì 16 settembre 2010

Più infrastrutture al nord,tagli alla sanità al sud.Ecco quale Italia emergerà dalla riforma federalista.


(Giorgio Santilli)
Quale Italia verrà fuori dalla riforma federalista? «Se il federalismo fiscale è rigoroso, deve produrre più infrastrutture al Nord e taglio di posti di lavoro nella sanità assistita del sud». Il direttore del Censis, Giuseppe Roma, sintetizza così la scena dell'Italia federale perché se una riforma è vera «deve produrre lacrime e sangue, cioè reale riduzione della spesa pubblica». Subito aggiunge un avvertimento, però. «Se non accade questo, se non viene esaltata la funzione razionalizzatrice del sistema federalista, allora il cambiamento si tradurrà solo in uno spostamento di quote di potere e di spesa pubblica dal centro alla periferia. In questo caso, sarà alto il rischio che i governatori, in sede locale, usino leve come l'addizionale Irpef per aumentare e non diminuire la pressione fiscale».

Questa «ambiguità» della riforma federalista, sospesa fra «svolta rigorista» e «continuismo clientelare», non è risolta neanche dagli ultimi testi elaborati dal governo su fisco regionale e costi standard: lo sottolineano tutti quelli che accettano di sottoporsi all'esercizio di immaginare l'Italia di domani, politologi, economisti, urbanisti, sociologi. La possibilità di aumentare le addizionali Irpef, l'Irap nelle mani dei governatori e i costi standard in versione soft non sono garanzie che il risultato finale del federalismo fiscale sia davvero quello del rigore.

«I decreti attuativi - dice Nicola Rossi, economista e deputato Pd poco ortodosso - sono ancora contenitori ambigui che possono contenere di tutto: un federalismo annacquato e vago che continua a garantire clientele nel Mezzogiorno oppure un federalismo rigoroso e sostanziale che aiuti il Sud a rendere più efficiente la gestione dei grandi flussi di risorse che continueranno ad arrivare, anche dall'Europa». Per Rossi il federalismo deve essere rigoroso e indurre le classi dirigenti del Mezzogiorno a riproporsi come «classe dirigente di livello nazionale»: una forma di orgoglio che hanno perso ormai da molti decenni.

L'ambiguità che sottolinea è molto diversa da quella che denunciano molti altri a sinistra: federalismo virtuoso o rischio di secessione. Semmai il rischio secessione non sembra venire tanto da questa riforma quanto dal suo possibile fallimento o svuotamento di effetti reali. In quel caso le vecchie idee leghiste, in versione hard, potrebbero tornare di moda. Così come potrebbe tornare di moda una secessione soft alla bavarese: il federalismo si attua al nord che è in grado di rispettare i parametri e il resto del paese resta indietro.

Più infrastrutture al Nord, taglio di occupazione nella sanità al sud: il direttore della fondazione Nord-est, Daniele Marini, concorda sull'efficacia di questa sintesi. «La realizzazione dell'Alta velocità Milano-Venezia - dice - è ciò che cittadini e imprese del nord-est si aspettano prioritariamente dalla riforma federalista: il disegno che vedo andare avanti mi pare coerente con questa aspettativa». Ferrovie e strade sono un modo per sintetizzare le esigenze del territorio, ma il discorso non cambia se si allarga alle infrastrutture immateriali come la banda larga o al nuovo welfare locale che riguarda anziani e immigrati. «Qui alcune amministrazioni locali hanno già un alto livello di responsabilizzazione civile - dice Marini - e siamo convinti che il federalismo possa portare anche le altre amministrazioni a questi livelli. Il federalismo deve soprattutto eliminare i vincoli del patto di stabilità che impediscono ai comuni virtuosi di spendere le loro risorse in favore della collettività».

Anche Marini vede, però, rischi e ambiguità connessi all'avvio del sistema. «Paradossalmente - dice - la fase di avvio del sistema potrebbe portare a una riduzione delle risorse disponibili o, se vogliamo, a un aumento della pressione fiscale anche al nord. È alto infatti il rischio che lo spostamento di funzioni dal centro alla periferia comporti in prima battuta una duplicazione di strutture e una lievitazione di costi». Roma dal canto suo vede un altro rischio: la duplicazione delle regole. «È già successo con l'urbanistica - dice - quando la competenza è passata alle regioni: le imprese si sono trovate a fronteggiare una sovrapposizione di regole tra centro e periferia e regole diverse sul territorio nazionale per situazioni analoghe». Ultimo esempio, il piano casa.

Anche Innocenzo Cipolletta riscontra da economista profonde ambiguità nel percorso federalista. «Non possiamo neanche parlare di federalismo, ma di decentramento fiscale, perché non abbiamo risorse prelevate in ambito locale e poi trasferite al centro per la quota di servizi nazionali svolti, come è nei sistemi federalisti. Abbiamo il governo che decide che quote trasferire in periferie e anche a quali costi standard devono essere forniti i servizi». Inoltre l'Irap messa nelle mani dei governatori rischia di creare penalizzazioni pesanti alle imprese in ambito locale, come già avviene per i deficit sanitari.

Sintetizza Gisueppe Roma: «Difficile dire che cosa sarà l'Italia federale perché dovremmo accompagnare questa fase di transizione con riforme e provvedimenti che aiutino il federalismo ad andare nella giusta direzione. Per esempio, riducendo davvero la spesa pubblica e premiando i comportamenti virtuosi. Oggi tutto questo non è scontato affatto».

martedì 14 settembre 2010

La riforma con i fichi secchi.


(Sergio Luzzato)
A differenza della riforma dell'università, tuttora discussa in parlamento, la riforma Gelmini delle scuole superiori è ormai una realtà. Una realtà che il ministero dell'Istruzione presenta con toni trionfalistici - «riforma storica» - mentre nel mondo degli insegnanti prevalgono le critiche.
Come tutte le riforme, anche questa non va giudicata in astratto, ma in concreto: occorrerà dunque attenderla alla prova dei fatti.


Nondimeno, è fin d'ora possibile distinguere fra alcuni ambiti d'intervento in cui la riforma promette di riuscire efficace, e altri in cui appare penalizzata in partenza, per il modo in cui i tagli finanziari imposti dal governo sono destinati a incidere sulla qualità dell'insegnamento nella scuola pubblica. Perciò, si può già sottomettere la riforma Gelmini a una specie di esame, utilizzando - in maniera semiseria - i parametri della vecchia triade: "promossa", "bocciata", "rimandata".

1Gli indirizzi e le materie

PROMOSSALa riforma semplifica e rinnova il panorama dell'offerta formativa a livello di licei. L'eccessiva varietà della situazione preesistente (gli oltre 300 indirizzi della fase cosiddetta "sperimentale") viene infine razionalizzata: ai quattro licei tradizionali - classico, scientifico, artistico, linguistico - se ne aggiungono due nuovi, quello musicale e quello delle scienze umane. Già quest'anno, gli studenti usciti dalla scuola media inferiore hanno avuto modo di scegliere entro una gamma di possibilità chiare e definite.
Quanto alla nuova distribuzione delle ore d'insegnamento per materia, va senz'altro nella giusta direzione il potenziamento delle ore di matematica, di fisica e di scienze. In compenso, è assai criticabile il ridimensionamento delle ore di geografia. Ma il limite più grave della riforma sta nella persistente svalutazione del diritto e dell'economia, due materie ancora confinate (secondo una logica culturale risalente alla riforma Gentile del 1923!) agli istituti tecnici e al solo liceo delle scienze umane.

2 Gli orari

BOCCIATA La riforma Gelmini comporta una riduzione degli orari d'insegnamento settimanale, sia pure con modalità variabili secondo che si tratti di licei o di istituti tecnici. In sostanza, i nostri ragazzi passeranno sui banchi meno ore che nel passato.

. È questa una decisione di assai dubbia opportunità. E le rassicurazioni del ministro sul fatto che manchi una correlazione diretta fra numero di ore di scuola e qualità della performance didattica non bastano a vincere il sospetto che la misura sia stata adottata soprattutto, o forse unicamente, per ridurre il numero di insegnanti, cioè i costi.
In ogni caso, nel momento in cui la scuola deve fronteggiare la concorrenza di "agenzie formative informali" che i ragazzi trovano molto più attraenti (internet, i social network ecc.) risulta improvvida qualunque politica che li allontani dai banchi, consegnandoli - soprattutto quelli provenienti da un ambiente sociale e familiare meno favorito - al quasi-nulla dei telefonini e delle chat.

3 Gli stranieri e gli assenteisti

RIMANDATA È più che condivisibile il tetto del 30% di stranieri sul totale degli alunni di una classe. La misura vale non già per discriminare gli stranieri, ma anzi per evitare che, in certi quartieri di certe città, le classi diventino simili a ghetti.
Appare invece più "propagandistica" che assennata la regola (già valevole per le medie, ed estesa adesso alle superiori) per cui chi supererà il tetto delle 50 assenze annuali verrà automaticamente bocciato. Il giusto proponimento di responsabilizzare, con questa minaccia, le famiglie oltreché i ragazzi, si scontra con l'evidenza sociale per cui l'eccesso di assenze è spesso un effetto (e non la causa) di situazioni di disagio altrimenti profonde, che una "bella" bocciatura di fine anno non basterà certo a sanare.

4 Il rapporto con gli insegnanti

BOCCIATA La riforma Gelmini non incide in se stessa sullo statuto degli insegnanti: tuttavia, interviene al culmine di una stagione in cui i tagli degli organici hanno considerevolmente peggiorato la situazione degli insegnanti stessi, così nell'effetto "percepito" come nella realtà. E il problema non riguarda soltanto i famosi precari: investe direttamente i professori di ruolo.
Il tetto massimo di alunni per classe è stato aumentato, con effetti sulla qualità della didattica che ben difficilmente potranno rivelarsi positivi. Intanto, la scure dei tagli già sta colpendo alcuni "servizi trasversali" quali il coordinamento fra i corsi, l'educazione alla cittadinanza, la mediazione culturale con gli stranieri, mentre sta riducendo a zero la progressione stipendiale dei docenti per scatti di anzianità.
l governo sembra non rendersi conto che una politica sistematica di riduzione dei costi sul fronte degli organici contribuisce a ridimensionare ancora di più - allo sguardo dei ragazzi - la figura del loro insegnante, che essi hanno sempre più ragione di percepire come socialmente dequalificata, economicamente sottopagata, culturalmente frustrata.
Su questo punto, il ministro Gelmini risponde alle critiche sostenendo che proprio i risparmi sul capitolo di spesa relativo agli stipendi consentiranno di premiare con aumenti di stipendio gli insegnanti più meritevoli. Peccato che, per ora, i professori delle scuole italiane abbiano conosciuto soltanto la fase A (riduzione degli organici, blocco degli scatti di anzianità) mentre per la fase B (redistribuzione dei risparmi secondo criteri meritocratici) si ha a che fare con meri annunci, ripetuti da tempo e da tempo rimasti tali.
In definitiva, il quadro d'insieme riesce chiaro. Condivisibile in molte sue linee direttrici, la riforma della scuola del ministro Gelmini si scontra con una logica che prescinde dal potere d'intervento del ministro stesso, e che riguarda l'entità drammatica dei tagli imposti al sistema dalle manovre finanziarie del governo.
Sui banchi delle nostre scuole, si vanno celebrando le proverbiali nozze con i fichi secchi.

sabato 11 settembre 2010

Questi due libri mi stanno facendo riflettere.



L’infanzia dorata, la giovinezza comunista, la corte di Mattei
e quella di Scalfari: il bilancio d’una vita in «Poteva andare peggio»
CESARE MARTINETTI

Possono essere «ragionevoli» le «illusioni»? Unendo queste due parole nel sottotitolo del suo libro, Mario Pirani rivela autoironia e disincanto nell’affrontare il bilancio di una vita rimarcabile, oltre sessant’anni di politica e giornalismo, illusioni e disillusioni, nel segno di una passione mai dissociata dall’ostinato esercizio della ragione.

Poteva andare peggio (Mondadori, 430 pp., 20 euro) è autobiografia e anche autoanalisi, il racconto del protagonista di una generazione per la quale la politica è stata misura e struttura dell’esistenza. A quelli come Pirani (classe 1925) è toccato in sorte di crescere al passo con la Storia: il fascismo, la guerra, la ricostruzione, l’energia costruttiva degli Anni Sessanta, il giornalismo di battaglia degli Anni Settanta... Tempi, che paragonati a quelli di oggi, ci appaiono lunari, persino eroici.

Nato a Roma in una famiglia ebrea, borghese, liberale, Pirani attraversa un’infanzia dorata, vacanze al Lido di Venezia e in Versilia, austere atmosfere thomasmanniane e da «vestivamo alla marinara», distese di spiagge esclusive, dove i bagnini correggevano a ogni ora l’inclinazione delle tende per assicurare ombra costante alle signore che abbigliate in severi costumi osservavano le tate badare ai bambini. Ore e ore di infinite giocate alle biglie, ma anche la conturbante scoperta del sesso spiato attraverso le fessure dei padiglioni balneari e del desiderio del «giardino segreto» intravisto una volta sotto la camicia da notte della giovane domestica Liana.

Un incantesimo che va in pezzi nella seconda metà degli Anni Trenta. Le leggi razziali (dalle quali però la famiglia Pirani si salva con infinite peripezie), la guerra, l’occupazione. Il ritorno alla vita. Il padre, dirigente della Ciga Hotels, lo vorrebbe direttore d’albergo e gli apre la strada al Continental di piazza dei Cinquecento. Ma i tempi offrono ben altro al giovane Mario: «La gioia, la curiosità per una libertà che non avevamo mai conosciuto... i manifesti dei partiti, incollati ai muri, ci rallegravano come quadri di un’esposizione futurista... l’annuncio dei comizi ci sollecitava come una prima teatrale: il socialista Nenni, l’azionista Cianca, il comunista Terracini: mi abbeveravo alle loro parole».

L’adesione al Pci fu la conseguenza non obbligata ma naturale di un momento in cui la mente si liberava da «valori borghesi, credenze religiose, opinioni di classe». Un’«illusione», rivela ora il Pirani-biografo: «Stavamo diventando succubi di un nuovo credo globale... che avrebbe giustificato ai nostri occhi ogni prevaricazione, violenza, spietatezza e dittatura». Il giovane Mario non può o non sa vederlo. Chiede di entrare a tempo pieno nell’apparato del partito. «Ci definivamo “rivoluzionari di professione”, senza alcun senso del ridicolo». La vita e la politica si uniscono in un amalgama indistinguibile. Quando lo trasferiscono a Venezia, il partito gli organizza anche il matrimonio perché laggiù «non avrai né il tempo né i soldi per andare a puttane». L’amore - con Claudia - crescerà poco per volta e durerà sempre, nonostante la separazione.

I dubbi, tuttavia, affiorano fin dal ’48, con la condanna di Tito da parte del Cominform: «I miei convincimenti cominciarono a vacillare». E ora confessa il Pirani biografo: «Se il Pci avesse prevalso, l’Italia avrebbe conosciuto una sorte simile a quella delle “democrazie popolari” dei Paesi dell’Est». Fu la doppiezza togliattiana a salvarci, ma anche l’elasticità di De Gasperi e persino la «mano ferma» di Scelba.

I dubbi non salvano però Pirani, nemmeno ai tempi della campagna antisemita dello stalinismo declinante del ’53, nemmeno con l’invasione sovietica di Budapest nel ’56. Diventato giornalista dell’Unità, Mario lascerà il Pci solo nel ’61, dopo un grottesco processo, accusato di deviazionismo per articoli troppo realisti sulla presa del partito tra gli operai. Reichlin, direttore del giornale, che pure li aveva pubblicati, non mosse un muscolo in sua difesa; Pintor, futuro espulso, si adoperò per censurare le tentazioni socialdemocratiche di Pirani che proprio allora toccò con mano l’illusione vissuta: «Ringraziai in cuor mio di vivere al di qua della cortina di ferro protetto dalla bandiera a stelle e strisce».

E così Mario Pirani da Lenin passò all’Eni, complice e sponsor Giorgio Ruffolo, entrando in un’altra ragionevole illusione della sua vita, incaricato da quel genio visionario di Enrico Mattei di tenere le fila della diplomazia segreta con il governo clandestino dell’Algeria che stava conquistando l’indipendenza. Mentre il governo italiano ancora fiancheggiava Parigi, il patron dell’Eni era già oltre. Troppo oltre. A Pirani, inviato a Tunisi, era affidato un ruolo che stava tra l’ambasciatore mascherato e l’agente segreto. I capitoli dedicati a questa parte della vita sono degni di Graham Greene, grande scrittura e appassionante intreccio. Ma anche la testimonianza di un protagonista su una vicenda - la politica dell’Eni e la morte di Mattei, che Pirani considera un omicidio degli americani - che è uno snodo cruciale della storia italiana del dopoguerra. Eugenio Cefis avrebbe ribaltato l’utopia neutralista dell’Eni matteiano e riportato l’Italia nel recinto americano.

Dal 1968 la vita di Mario Pirani prende l’ultima e definitiva incarnazione: il giornalista. Prima al Giorno di Pietra, poi al Globo di Ghirelli, di nuovo al Giorno. Dal ’76 - dalla fondazione - a Repubblica alla corte di Eugenio Scalfari, poi a La Stampa e dall’86 di nuovo a Repubblica, che considera la sua «casa». Il tempo delle illusioni non è però finito. Prima svanisce il sogno di dirigere La Stampa: l’avvocato Agnelli, che ai suoi direttori ha sempre chiesto un côté di levità, lo aveva forse trovato troppo serioso. O perlomeno questo è quello che Mario pensa. Poi la cricca P2 della Rizzoli lo attrae - brevemente - nella trappola della direzione dell’Europeo.

Fare il direttore di un grande quotidiano è stato per Mario Pirani forse la maggiore delle illusioni perdute. L’averlo raccontato in questo libro con lo stesso ruvido rigore dei suoi articoli testimonia che erano anche ragionevolissime: un sognatore molto realista.

Altra pubblicazione interessante è il libro di Sergio Chiamparino la "Sfida", manifesto politico dove il sindaco di Torino spiega perchè la sinistra perde sempre e che cosa serve per provare a ribaltare tutto.Un lungo rosario di giudizi netti e spietati su un partito che ha fallito "la scommessa primordiale" del Lingotto,su una sinistra che non ha più identità,magari neppure un futuro e che,soprattutto,ha perso gran parte delle sue parole d'ordine.Se si chiede a chiunque quali sono i valori evocati dalla parola destra,le risposte fioccano:immigrazione,tasse,federalismo.E la sinistra,invece?Al massimo qualcuno cita la legalità.Noi comunisti italiani(Pci),dice il sindaco di Torino,avremmo dovuto essere capaci di far cadere il nostro "muro" personale almeno un minuto prima che cadesse il Muro di Berlino.Il fatto è,continua Chiamparino,che il nucleo originario del nostro postcomunismo è sempre lo stesso e molti problemi nascono di lì.Ci siamo fatti scavalcare,e secondo me,se non si cambia sarà sempre peggio.E allora chi contrasterà la destra?Forse un terzo polo,forse anche un quarto,ma di certo non noi,conclude il sindaco.

venerdì 10 settembre 2010

Gli italiani bocciano il porcellum.


(Antonio Noto,Direttore IPR Marketing)
Tutto, ma non il Porcellum. In una graduatoria dei sistemi elettorali preferiti dagli italiani, la legge attualmente in vigore si colloca all'ultimo posto, scavalcata da tutte le opzioni attualmente sul tavolo. Un effetto del gradimento prossimo allo zero tra gli elettori dell'opposizione, certo, ma anche della cospicua quota di insoddisfatti presenti all'interno della stessa maggioranza. Ad oggi, questo dicono le cifre, nel centrodestra solo tre elettori su dieci auspicano il mantenimento del sistema che ha disciplinato le ultime due consultazioni elettorali.

Ciò non significa che dagli intervistati provenga una chiara indicazione sull' alternativa da preferire. Il quadro infatti risulta piuttosto polverizzato, con le due grandi opzioni sul tavolo, proporzionale e maggioritario, attestate su livelli di apprezzamento sostanzialmente equivalenti. All'ampio consenso raccolto dal sistema proporzionale di tipo tedesco, che si profila come la prima scelta degli italiani, fa riscontro un'analoga quota di adesioni nei confronti del maggioritario, distribuita però tra le ipotesi di doppio turno e turno unico.

Il risultato, all'apparenza neutro, se letto in chiave prospettica e confrontato con i riscontri degli ultimi mesi evidenzia invece delle tendenze abbastanza chiare: da un lato, il costante incremento di popolarità dei sistemi che valorizzano il principio della rappresentatività; dall'altro, il crescente scetticismo verso formule che concepiscono l'aggregazione e la semplificazione come presupposto necessario per la stabilità e la possibilità di governo.

Il dato non può non essere letto come una valutazione degli italiani sulla tenuta e la solidità dei confini dell'attuale "geografia" politica oltre che, con riferimento ai due poli, della scarsa coincidenza tra omogeneità formale e univocità della proposta. Il crescente riscontro dell'ipotesi proporzionalista può essere allora interpretato come il desiderio di recuperare un'individualità autentica e conclamata, in alternativa ad una composizione del quadro politico solo all'apparenza semplificata e razionale.

Come che sia, l'indagine mostra quanto il tema delle regole assuma agli occhi degli italiani una rilevanza significativa e inedita, con una percentuale di indecisi attestata su livelli nettamente inferiori rispetto al passato. A questo proposito è lecito supporre che l'acceso ma argomentato dibattito sulla legge elettorale di questi mesi, oltre a fornire maggiori elementi di valutazione, abbia spogliato il tema delle"regole del gioco" del suo tradizionale carattere asettico e alchemico, per evidenziarne le ricadute sostanziali sull'agibilità della politica e sulla qualità della democrazia del nostro Paese.

Intervista a Tony Blair.


(Leonardo Maisano)
«Impopolare? Diciamo controverso perché in politica se decidi, dividi». Tony Blair, 57 anni, svolazza da una stanza all'altra nel ridotto degli uffici di Grosvenor square dove promuove, a porte chiuse, la sua monumentale autobiografia. Ottocento pagine, epica densa del più longevo, politicamente parlando, premier laburista immortalato da sé stesso. Lo incontriamo poche ore dopo la cancellazione degli appuntamenti pubblici per la firma del volume e dopo il rinvio, sine die, del gran party che avrebbe dovuto celebrare l'evento editoriale dell'anno, con il libro che già si polverizza sugli scaffali delle rivendite del Regno e di mezza Europa.


Ha rinunciato a tutto ciò per le proteste di ultrà pacifisti e neo-fascisti del British national party, secondo la sua stessa ricostruzione. Una minoranza, dice l'ex premier britannico, oggi più asciutto che mai, ancora leggermente abbronzato, in abito grigio e camicia aperta sul collo. «Devo mettere la cravatta?». La corte che lo accompagna lo solleva dall'incombenza. Si accomoda e si comincia in una sequenza di immagini che incrociano David Cameron e Gordon Brown, Silvio Berlusconi, i destini della sinistra, quelli del Medio Oriente e quelli, più modesti, della famiglia Miliband.
«Come diceva lei ho vinto tre elezioni e quindi non parliamo di impopolarità. Tuttalpiù, lo ripeto, sono una figura controversa. Ma poi, stiamo attenti: se metti qualche immagine in televisione sembra che protesti tutto il paese ... e invece».

Poche centinaia lei dice, ma tutti concentrati sulla guerra in Iraq. Nel libro assolve sé stesso, ma se tornasse indietro che cosa farebbe di diverso?
L'intelligence fu evidentemente sbagliata nel valutare le armi a disposizione del regime. Quello che non capii era il radicamento del movimento ideologico estremista islamico. Ci siamo liberati di Saddam in due mesi, ma poi abbiamo dovuto combattere non certo contro il popolo iracheno, ma contro le infiltrazioni di al-Qaeda, le mosse dell'Iran. Solo nel 2007 si è compreso che la realtà era diversa.

La guerra che tanto le ha nuociuto non cancella l'immagine di innovatore che assegna a sé stesso. Non è stato l'unico nella storia recente del Regno Unito. Margaret Thatcher prima di lei, al punto che fu indicato come il vero erede della Signora premier e, forse, David Cameron dopo.


È presto per dire che primo ministro sarà David Cameron. È vero, ha adottato alcune politiche, ad esempio sulla scuola, che sono in linea con le mie. Su altre sono in disaccordo. La verità è che la Gran Bretagna e non solo la Gran Bretagna, ha bisogno di un processo continuo di modernizzazione. Margaret Thatcher rese più competitivo il modello di business, io ho tolto la patina conservatrice, lavorato sul welfare. È stato diverso, ma se si ricerca un elemento unificatore credo che sia la voglia di modernizzare. Margaret Thatcher e io siamo stati innovatori, in aree e modi diversi.

Vuole dire che è il momento delle personalità più che delle ideologie per gestire e trasformare un mondo complesso?
La metterei in termini diversi. La personalità è sempre stata centrale nella politica, ma sinistra versus destra nell'accezione ultimativa del Ventesimo secolo è contrapposizione tramontata, anche se molti politici non lo hanno ancora accettato. Oggi la discriminate è apertura versus chiusura ai fenomeni derivati dalla globalizzazione. Per questo l'immigrazione, per esempio, è tema centrale per tutti.

La sinistra, in Italia e in Europa, non s'è del tutto adeguata a questa logica.
La sinistra vincerà quando deciderà di voler vincere. Deve fare una sola cosa: analizzare il mondo come il mondo è oggi, non com'era, o come vorrebbe che fosse, o come avrebbe voluto che fosse stato. Valuta il mondo com'è e troverai le risposte giuste. È ricetta buona per tutti: i partiti progressisti vincono quando sono all'avanguardia nel capire il futuro, sono sconfitti quando diventano una brutta copia dei conservatori. Quelli con la "c" minuscola.

Gordon Brown ha perso elezioni che, secondo lei, avrebbe potuto vincere se avesse spinto sulla dottrina New Labour. Non crede sia stata la crisi del credito a indurlo a trincerarsi verso dinamiche più tradizionalmente socialdemocratiche?
Quando la crisi finanziaria ha colpito, a sinistra c'è stato un sentimento forte contro le logiche di mercato e molti si sono anche fatti scappare un "finalmente". Ma l'opinione pubblica no. Il problema di Gordon e di molti altri è stato credere che lo stato fosse tornato di moda, che le politiche sarebbero andate nella direzione pubblica e l'elettorato automaticamente a sinistra. Non poteva succedere perché i cambiamenti sociali avvenuti prima della crisi sono sopravvissuti alla crisi. Gli elettori sanno che parte del mercato ha fallito, si arrabbiano, ma non credono che la risposta sia lo stato.

Una delle conseguenze lasciate dal credit crunch riguarda i destini incerti delle banche britanniche. A Londra e solo a Londra si parla di spaccare gli istituti di credito universali, dividerli in banche retail e investment banks. È d'accordo ?
Si tratta di giudicare in termini di giusto o sbagliato non destra o sinistra. Come dire: nessuna impostazione ideologica. Vedremo quello che dirà la Commissione governativa chiamata a studiare il dossier e proporre soluzioni. Ma come ho sostenuto nel mio libro questa crisi non significa fallimento del sistema finanziario nel suo complesso. Ha fallito solo una parte di esso per via di fenomeni globali di cui nessuno di noi aveva esatta e precisa conoscenza. Ora non si deve necessariamente abbandonare l'impostazione del passato, può bastare introdurre nuove regole e nuove forme di vigilanza.

Lei premier laburista ha, nel suo libro, parole di stima nei confronti di Silvio Berlusconi e non solo per la mano che ha dato a Londra nella corsa per le Olimpiadi del 2012. Eppure i media inglesi non sono mai stati teneri con il presidente del consiglio italiano.
Non credo solo quelli britannici. È la naturale tendenza della stampa di collocare gli uomini politici in categorie facilmente riconoscibili. Ci sono opinioni convenzionali su come debba essere un leader, ma Silvio non ha assolutamente niente del politico convenzionale. È unico. La conseguenza è che chi non si capisce finisce per non piacere. Io vado d'accordo con lui perché è diretto e leale alla parola data. L'ho sempre detto, a tutti. Ed è il motivo per cui ci intendiamo. Non solo. È obiettivamente divertente e nella politica è importante anche potersi rilassare. Non mi dimenticherò mai quando prima o dopo una conferenza stampa, credo a microfoni chiusi, mi disse: «Se tu fossi una donna mi innamorerei di te!». Nessun primo ministro al mondo direbbe una cosa genere, ovviamente scherzando. La politica può essere mortalmente noiosa, ma se incontri un personaggio di quel calibro almeno si sorride.

Crede al parallelo fra la crisi Blair-Brown e quella Berlusconi- Fini?
No, sono storie completamente diverse. In Italia, mi creda, avete eccellenti politici con i quali sono ancora in contatto, ma oggi è molto più dura di prima. Ne ho parlato di recente con Bill Clinton. Lavorammo insieme quando lui era a fine mandato e io all'inizio. Erano tempi complessi, ma non difficili come oggi, quando questioni politico-diplomatiche, economiche e di sicurezza si incrociano con implicazioni culturali. Pensiamo a quanto è accaduto dopo l'11 settembre all'imporsi dell'emergenza sicurezza, all'estremismo islamico, all'avvitarsi della crisi economica e all'Oriente. Non mi stanco mai di ripeterlo: andate in Cina, India, Indonesia ma anche in Brasile a vedere un mondo trasformato.

Eppure proprio ora si riparte con la partita mediorientale. Lei da anni è inviato speciale del Quartetto per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese come valuta la ripresa dei negoziati?
Speriamo. Ma oltre alla speranza penso che questo possa essere il punto di svolta. Lo credo per quattro buoni motivi. Prima di tutto il presidente Obama ne ha fatto una priorità della presidenza. In secondo luogo mi sono convinto che i due leader, (Benjamin Netanyahu e Abu Mazen ndr) vogliano la pace. Infine il successo della trattativa lo invoca, ora, la leadership del mondo arabo e soprattutto la gente.

Sull'area pesa un'altra incertezza, un'altra incognita: l'Iran. Crede che l'Occidente si stia muovendo con decisione o sia frenato da troppi dubbi ?
Spero che l'Iran cambi il suo atteggiamento. Resto convinto che non si possa correre il rischio di avere un Iran nuclearizzato perché il rischio di destabilizzazione sarebbe altissimo per la regione e per il mondo. Ci affidiamo alle sanzioni e alla diplomazia. Non temo nella debolezza del mondo occidentale, temo invece che l'Iran creda che ci siano divisioni e fragilità. Io non ne vedo. Il presidente Obama ha una strategia chiarissima: offre una mano al regime promettendo che nessuno cerca di promuovere ribaltamenti interni, ma traccia anche una linea rossa. Una linea netta che Teheran non dovrà oltrepassare

Meno sanguinoso, più vicino, ma piuttosto incerto è anche un altro conflitto, quello per la leadership del suo partito. Miliband contro Miliband, David contro Ed. Quale Miliband, signor Blair?
Ho lavorato con David da vicino. Ma sosterrò comunque il Miliband che vincerà.

Ciao Angelo!

L'iPad e i quotidiani.


(Christian Rocca)
Quando è uscito l'iPad, il gran capo di una delle più importanti internet company del mondo ha chiesto ai suoi dirigenti di provare il nuovo strumento elettronico della Apple e di fargli sapere che cosa ne pensassero. Qualche giorno dopo, con la sicumera tipica degli esperti del settore, i manager hanno elencato tutta una serie di mancanze, di difetti, d'incompatibilità dell'iPad. Il gran capo li ha ascoltati con attenzione, poi ha chiesto ai manager di conoscere anche il giudizio di familiari, coniugi, figli, genitori. La risposta è stata unanime: per loro, per la gente normale, usare la tavoletta è un'esperienza entusiasmante.


C'è quindi da procedere con cautela nel recensire lo sbarco dei quotidiani, delle riviste e della carta stampata su iPad perché l'occhio di chi fa i giornali potrebbe non essere allineato alle esigenze di chi li legge. Sei mesi dopo l'arrivo nei negozi di mezzo mondo della tavoletta magica di Steve Jobs si può però fare una prima rassegna delle scelte compiute dai grandi quotidiani internazionali. La rivoluzione digitale è arrivata, ma non tutti sanno ancora che cosa mettersi. I due grandi giornali d'informazione politica americana, per esempio, sono stranamente rimasti un passo indietro, nonostante per tradizione siano quelli che definiscono le regole del giornalismo contemporaneo. Il Washington Post non ha ancora l'application per iPad. Quella del New York Times offre soltanto una selezione di articoli, «editor's choice», in modo gratuito, ma con una struttura molto diversa da quella del giornale cartaceo.

I modelli di trasposizione su iPad dei contenuti giornalistici di carta sono sotanzialmente due, uno più innovativo, addirittura rivoluzionario, e un altro meno radicale, più semplice, a minore tasso tecnologico. In Italia si è scelto di percorrere la via della mera pubblicazione delle pagine pdf del giornale cartaceo, arricchite con qualche contenuto multimediale (video, gallerie fotografiche, link ai blog e al sito web).

L'idea alla base di questa scelta minimale è quella di replicare sulla tavoletta elettronica l'esperienza dello sfoglio cartaceo in modo da non spaventare i lettori con prodotti editoriali del tutto diversi da quelli finora conosciuti. In questo modo, però, lo strumento è sfruttato al minimo, quasi come ascoltare la radio su uno schermo tv al plasma.

La Stampa è l'unico dei grandi giornali italiani ad aver scelto la strada di ridisegnare il layout appositamente per iPad. La foto delle pagine cartecee non c'è. C'è un'altra cosa, che non è nemmeno la riproposizione del sito web. Rispetto a chi ha scelto questo secondo modello, l'App della Stampa risulta ancora povera, scarna e confusa, ma in linea con quanto hanno fatto i grandi giornali internazionali come Wall Street Journal, Financial Times, Times di Londra, Usa Today e con quanto farà, a breve, Il Sole 24 Ore. A fine mese, infatti, ci sarà l'avveniristica applicazione La Vita Nòva, una nuova rivista di cultura high-tech curata dalla redazione dell'inserto Nòva24 ma specificamente ideata per sfruttare al meglio spazi, dimensioni e potenzialità dell'iPad.

Leggere il Wall Street Journal, il Financial Times, il Times londinese o Usa Today su iPad non è come leggere le rispettive versioni cartacee, nonostante gli articoli siano identici. La versione su iPad non è soltanto interattiva, aggiornata e ricca di contenuti extra, ma è anche reimpaginata completamente per adattarsi alla dimensione della tavoletta. Alla base di questa seconda strada c'è la consapevolezza che lo sfoglio su iPad è un'esperienza diversa rispetto a quella dello sfoglio cartaceo. Non può essere altrimenti. Sono mezzi differenti.

L'iPad è stato annunciato con toni messianici, grazie anche a una furba strategia di marketing di Apple. Lo si era atteso come lo strumento tecnologico che avrebbe salvato l'industria giornalistica da una morte annunciata. I grandi e i piccoli gruppi editoriali hanno investito sulla tavoletta, regalando pubblicità gratuita ad Apple.

L'azienda di Steve Jobs se n'è avvantaggiata, i giornali ancora no. Ma un paper della Oliver Wyman - commissionato da Next Issue Media, il consorzio editoriale di Condé Nast, Hearst, gruppo Time, Meredith e News Corp. di Rupert Murdoch nato per esplorare le opportunità, i mercati e le ipotesi commerciali che il futuro digitale offrirà a editori, pubblicitari e consumatori - sostiene che l'iPad farà guadagnare al mondo dell'editoria americana più di un miliardo di dollari da qui al 2014 (si veda Il Sole del 18 agosto). Ad alcune condizioni: il prodotto giornalistico si deve adattare al nuovo strumento e le aziende editoriali si devono trasformare, riorganizzare e mettersi in discussione.

La rivista Atlantic - attivissima sul web grazie ai migliori blog politici in circolazione e a un formidabile aggregatore di opinioni - è appena sbarcata su iPad con una nuova proposta: non solo la rivista a pagamento, ma a breve anche un abbonamento premium che fornisce ai lettori tutta la copiosa produzione giornalistica online.

I grandi gruppi editoriali anglosassoni, insomma, scommettono sulla via più radicale, sul modello Wall Street Journal e Financial Times. L'iPad è uno strumento nuovo, diverso, rivoluzionario. Non è un semplice computer. Non è un foglio di carta. Non va dimenticato.

giovedì 9 settembre 2010

Laurea spuntata contro la crisi.


(Alessandro Schiesaro)
Il check-up annuale dell'Ocse al sistema educativo dei paesi membri consente di misurare in dettaglio l'evolversi del panorama internazionale in un settore la cui centralità è ormai indiscussa. Quello appena uscito presenta motivi di particolare interesse perché si fonda in gran parte su dati 2007-2008, con incursioni anche nel 2009, e consente quindi di misurare almeno in parte l'impatto della crisi economica globale.



Nel 2007 tre quarti dei laureati Ocse ha trovato lavoro nei primi anni dopo la fine degli studi, la stessa percentuale del 2003, quando però il numero assoluto dei laureati era nettamente inferiore e il clima economico nettamente migliore. L'Ocse conclude ancora una volta che l'investimento in formazione avanzata "paga" sia a livello individuale (il potenziale di guadagno del laureato è più alto), sia a livello sociale, per il maggior contributo fornito all'innovazione, la crescita e lo sviluppo.


L'appuntamento con i traguardi fissati dall'Agenda di Lisbona scade in teoria tra poche settimane e resta da vedere quanti parametri saranno stati rispettati: non c'è dubbio, in ogni caso, che tutto il mondo economicamente sviluppato abbia messo in moto politiche di promozione del capitale umano in linea con l'Agenda. Negli scorsi 13 anni i laureati Ocse sono cresciuti in media del 21%, ma in alcuni paesi i numeri raccontano un'evoluzione anche più sensazionale: il record appartiene alla Finlandia, che nello stesso periodo ha quasi triplicato il numero dei laureati e svetta oltre il 60% (una percentuale che resta altissima anche al netto di alcuni fattori distorsivi); la Slovacchia è cresciuta in modo simile puntando soprattutto sulle lauree professionalizzanti para-universitarie; la Russia presenta ritmi sostenuti; nel complesso la geopolitica della formazione avanzata, anch'essa ormai globalizzata, segnala spostamenti significativi tra l'asse tradizionale Usa-Gran Bretagna e i paesi dell'Asia e dell'Oceania a favore di questi ultimi.


Per quanto riguarda il numero dei laureati l'Italia sconta, nelle classifiche generali, il numero molto basso nelle classi di età più mature, ormai immodificabile. In quelle più giovani il 32,7% di laureati è invece in linea con la media Ocse e nettamente superiore al 19% del 2000, prima dell'introduzione della laurea triennale.
Restano però evidenti alcuni problemi. Il primo è la scarsa o nulla differenziazione della formazione terziaria, cioè quella post-diploma. La Germania, per esempio, ha meno laureati "tradizionali" rispetto all'Italia (il 25,5%), ma a questi si aggiunge un buon 10% di coetanei che ha conseguito titoli professionalizzanti di durata biennale o triennale, la stessa percentuale degli Usa, ma molto meno del 30% circa raggiunto da paesi tecnologicamente avanzati come il Canada, la Corea, il Giappone, il 25% di Francia e Svizzera, il 16,5% della Gran Bretagna. Tutti paesi in cui esiste da tempo un sistema consolidato di studi avanzati para-universitari sul cui modello sono ora esemplati gli Istituti tecnici superiori. Nell'attesa che questa nuova rete formativa, di grande importanza strategica, decolli definitivamente, le università italiane hanno continuato a supplire anche ad esigenze strettamente professionalizzanti offrendo una gamma di titoli triennali che altrove, appunto, sono giustamente affidati a istituzioni meglio in grado di prendersene cura, se non altro perché assicurano una correlazione organica con le esigenze del mercato del lavoro.


Proprio sul versante del rapporto con il mondo del lavoro colpisce un altro dato riferito all'Italia. In tutti i principali paesi Ocse l'inizio della crisi ha fatto aumentare percentualmente il tasso di disoccupazione dei non laureati, che più degli altri hanno subito la contrazione dell'economia: in Italia è successo l'inverso. Si tratta di un rapporto percentuale - chi ha conseguito la laurea continua ad avere nel complesso migliori prospettive occupazionali - ma fa comunque riflettere. Poiché i laureati si concentrano tra le classi di età più giovani, è possibile che abbiano scontato situazioni lavorative meno garantite; a questo è plausibile che si aggiunga un altro fattore in parte convergente, cioè l'imperfetto allineamento tra il titolo conseguito e le concrete prospettive occupazionali.


Da questo punto di vista il proliferare negli ultimi anni di lauree di dubbio peso scientifico, ma allo stesso tempo poco apprezzate sul mercato del lavoro, dimostra che non basta aumentare il numero dei laureati in quanto tale, ma che bisogna articolarne la tipologia e differenziarne i profili: il "pezzo di carta", di per sé, non basta davvero più.

martedì 7 settembre 2010

Ocse:"L'Italia investe poco in istruzione".


(Claudio Tucci)
La certificazione arriva dall'annuale rapporto Ocse, «Education at a glance 2010», presentato oggi a Parigi, che rielabora dati 2007 e 2008. Roma spende il 4,5% del Pil nelle istituzioni scolastiche contro una media Ocse del 5,7 per cento. Solo la Repubblica Slovacca spende meno tra i Paesi industrializzati. Complessivamente, la spesa pubblica nella scuola (inclusi sussidi alle famiglie e prestiti agli studenti) é pari al 9% della spesa pubblica totale, il livello più basso tra i Paesi industrializzati (13,3% la media Ocse) e l'80% della spesa corrente è assorbito dalle retribuzioni del personale, docente e non, contro il 70% medio nell'Ocse. La spesa media annua complessiva per studente é peraltro di 7.950 dollari, non molto lontana dalla media (8.200), ma focalizzata sulla scuola primaria e secondaria a scapito dell'università dove la spesa media per studente inclusa l'attività di ricerca è di appena 8.600 dollari contro i quasi 13mila Ocse.



Il rapporto dell'organizzazione parigina offre lo spunto anche per altre riflessioni. La prima è che in Italia le ore di istruzione previste sono ben 8.200 tra i 7 e i 14 anni. Solo in Israele i ragazzi stanno più a lungo sui banchi e la media Ocse si ferma a 6.777. Le dimensioni delle classi inoltre sono maggiori rispetto alla media Ocse (18 alunni contro 22) e il rapporto studenti/insegnante é tra i più bassi (10,6 alla scuola primaria contro media 16,4).

Gli insegnanti poi sono pagati meno della media soprattutto ai livelli più alti di anzianità di servizio. Un maestro di scuola elementare inizia con 26mila dollari e al top della carriera arriva a 38mila (media Ocse 48mila). Un professore di scuola media parte da 28mila per arrivare a un massimo di 42mila (51mila Ocse), mentre un docente di liceo a fine carriere arriva a 44mila (55mila). Al tempo stesso, però, l'Italia é quintultima per le ore di insegnamento diretto. Sono 601 l'anno nella scuola secondaria contro una media Ocse di 703. Tutto questo come si traduce in competitività? Semplicemente, che resta al palo.


La musica non cambia all'università e, soprattutto, dopo nel mondo del lavoro. A livello annuo e per un lavoro a tempo pieno una donna percepisce una retribuzione pari al 54% (media Ocse 72%) della retribuzione di un uomo. Il divario nei guadagni é minore nei livelli di istruzione inferiori: con la licenza media una donna ha il 75% delle entrate di un uomo e il 72% con un diploma di scuola superiore. In base alle statistiche dell'Organizzazione, peraltro, solo il 14% della popolazione adulta italiana ha una laurea contro la media Ocse del 28% e sono meno anche i diplomati (53% contro 71%). Il numero dei laureati nella Penisola é però in aumento (+5,3% medio annuo rispetto al 1998) e raggiunge il 20% nella fascia d'età 25-34 anni (ma la media Ocse é del 27%), mentre é solo il 10% tra gli ultra 55enni. L'85% dei giovani arriva al diploma di scuola media superiore, ma all'università si iscrive solo il 51% (contro la media Ocse del 56%) e le donne (61%) in maggior misura degli uomini (43 per cento).

lunedì 6 settembre 2010

Angelo Vassallo,un sindaco dell'Italia onesta.

(Antonio Cianciullo)
I pannelli fotovoltaici e l’energia pulita, la raccolta differenziata e i contenitori a rendere, le spiagge aperte a tutti. Si può morire per questo? Per obiettivi così ragionevoli, così condivisi? Fino a ieri si poteva rispondere di no, con l’assassinio di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica e Acciaroli, la risposta cambia. La strategia di espansione dell’ecomafia porta la criminalità organizzata a scontrarsi in modo diretto con chi difende la buona gestione del territorio, a cominciare da settori che fino a pochi anni fa erano considerati marginali come i rifiuti e le energie rinnovabili.
Di fronte a un omicidio occorre sempre aspettare il verdetto della magistratura prima di dire una parola definitiva, ma tutto – a cominciare dalle dichiarazioni degli inquirenti – indica la pista che porta a quel settore della criminalità organizzata che si è specializzato nel fornire risposte illegali alle esigenze ambientali a cui lo Stato stenta a dare risposta. Se l’ecomafia è arrivata a fatturare 20 miliardi di euro è anche perché nella battaglia contro il traffico di rifiuti, l’abusivismo edilizio, le cave illegali e la vendita di animali protetti sono mancate la compattezza e la determinazione necessarie. A fronte del sacrificio di tanti magistrati e agenti delle forze dell’ordine si sono registrati ripetuti segnali d’incertezza: dai condoni alla resistenza nell’inserimento dei reati contro l’ambiente nel codice penale.
Angelo Vassallo, ambientalista ed esponente del Pd, era una figura simbolica: l’uomo che si era battuto per trasformare un piccolo Comune del Cilento in un manifesto della buona amministrazione. “Siamo un punto di riferimento per tutte le località turistiche d’Italia. E’ un risultato che ci rende orgogliosi: spesso si parla della Campania in maniera non lusinghiera. Noi siamo l’esempio vivente di come l’impegno possa rendere questa regione la più bella d’Italia”, aveva detto pochi mesi fa, quando Pollica e Acciaroli avevano conquistato le 5 vele, il massimo riconoscimento, nella Guida Blu pubblicata ogni anno da Legambiente e Touring Club.
La criminalità organizzata ha voluto colpire il simbolo di questa battaglia. Dimostrando così come il centro dei suoi interessi si stia lentamente spostando dai settori tradizionali come i grandi appalti alla gestione di nuovi interessi. Contrastare questo processo sarà difficile se, accanto all’azione repressiva, non si riuscirà a sottrarre terreno all’ecomafia mettendo in campo una risposta rapida e credibile alla gestione dei rifiuti, del paesaggio, delle energie pulite. La direttrice è chiara perché l’ha indicata l’Unione europea fissando il traguardo del 20 – 20-20 per le energie rinnovabili, l’efficienza e la riduzione dei gas serra, e la progressiva crescita della raccolta differenziata. Se la seguiremo tutto il paese guadagnerà sicurezza e competitività. Altrimenti a guadagnare saranno solo le cosche.

"Accabadora" vince il premio Campiello 2010.Grazie Michela!

(Giulia Blasi)
Sarebbe facile parlare di Accabadora, il romanzo di Michela Murgia uscito per Einaudi, come del solito libro folk, ambientato in un mondo meticolosamente ricostruito, buono per farsi un viaggetto di testa . Invece Accabadora è un libro al passato che è pieno di presente. La storia di Maria, e della sua vita con l'oscura e misteriosa Tzia Bonaria, che fa i vestiti per i vivi e "l'ultimo cappotto" per i morti, non è difficile da applicare al nostro presente. I temi che tratta - la maternità, la morte come evento comunitario e non individuale - sono straordinariamente attuali. «Ho voluto che Accabadora fosse quanto di più lontano possibile da un romanzo a tesi» spiega l'autrice, «anche perché credo che sarebbe una forzatura violenta voler accostare l'accabadura all'eutanasia. La prima si genera in un contesto dove la volontà del singolo è del tutto subordinata alla responsabilità della comunità. L'eutanasia come la concepiamo noi, oggi, è l'estremo atto di autodeterminazione, nasce in un contesto in cui anche l'assistenza all'agonizzante non è più comunitaria. Oggi si pretende la vita ad ogni costo pur sapendo che quel costo peserà solo sul singolo o sulla sua famiglia.»

L'accabadora, la donna che dà il colpo di grazia agli agonizzanti, è la figura centrale del paesaggio relazionale di un romanzo quasi interamente al femminile, in cui gli uomini si muovono sullo sfondo, padroni ma estranei. «In questa storia ci sono molti fatti, ma soprattutto c'è il "sentire" di quei fatti, la loro interpretazione nell'economia della piccola comunità dove tutto si svolge, e dove il ruolo dell'interprete spetta sempre e comunque alla donna. Quando padre e figlio vanno dalla vecchia Bonaria con i resti di un maleficio in mano, non ci vanno per ottenere spiegazione, ma perché riconoscono il ruolo sciamanico della donna anziana.»

Tra tutte le relazioni del romanzo, la più importante è sicuramente quella fra Tzia Bonaria e Maria, la bambina che Tzia Bonaria si prende in casa secondo l'antico costume dei fillus de anima: una famiglia che ha molti figli, troppi per poterli sostenere, può scegliere di affidarne uno o più a una donna o a una coppia che non ne hanno avuti. Un costume tutt'altro che estinto: «I fillus de anima esistono, io stessa lo sono. L'usanza nasce da un contesto sociale dove le relazioni sono un ammortizzatore sociale più efficace della burocrazia, e generano maggiore stabilità. Prima di scrivere Accabadora ho fatto molte ricerche sull'adozione affettiva, e ho avuto la possibilità di accedere all'archivio di Stato, dove sono contenuti i testamenti delle madri e dei padri adottivi, l'unico documento scritto dove appare traccia - spesso in maniera toccante - dell'accordo di filiazione, che esplicitava il passaggio di tutti i diritti e i doveri di mutua assistenza. Una cosa del genere può realizzarsi solo in comunità dove esiste il concetto di co-genitorialità, e la responsabilità di ciascuno è estesa alle scelte di tutti.»

Da un libro così, può nascere un dibattito pubblico? «Ti pare che Gomorra abbia innescato una riflessione comune sulla camorra? In Italia non esiste dibattito civile, piuttosto esistono arene dove paga solo chi fa scelte di campo. Credo, però, nella possibilità di innescare con la narrazione processi di consapevolezza individuali. Mi sembra già tanto.»

venerdì 3 settembre 2010

Il Pd, che vive aspettando Harry Potter.


(Curzio Maltese)
Ma che cosa vuole tutta questa gente dal povero Pierluigi Bersani?Che cosa sperano i (troppi) candidati dell'ultima ora alla guida del centrosinistra?Pensano davvero che il gruppo dirigente del Pd si suicidi,dopo aver tanta fatica per riprendersi il partito,lasciando un biglietto in cui indica Vendola o Zingaretti come eredi?
Non hanno capito nulla.Bersani,Penati,D'Alema non si sposteranno di un centimetro,anche a costo di far rivincere Berlusconi.Il Pd come lo hanno sognato milioni d'italiani non esiste più.E' finito prima con la sconfitta di due anni fa e poi con le dimissioni di Veltroni.Forse era destinato a fallire comunque,perchè era nato vecchio e sulla spinta di una porcata di legge elettorale.
Proprio come il suo avversario,il Pdl.Ormai alla guida del Pd c'è un gruppo di funzionari impegnati nell'unica cosa che sanno fare:la riedizione del Pci.Ovvero,la sopravvivenza di un progetto nato con Togliatti e morto con Enrico Berlinguer.Possono farlo perchè l'Italia è una nazione di nostalgici.
Perchè quando la storia li aveva condannati sono stati salvati da un'intuizione geniale di Occhetto,che pure loro odiavano.
Possono perchè dall'altra parte c'è Berlusconi e lui c'è perchè ci sono loro a fornirgli l'unica,ma decisiva ideologia:l'anticomunismo.Questo è lo stato dell'arte ed è ridicolo illudersi che questo Pd possa trasformarsi in un moderno partito riformista con il colpo di bacchetta di un Harry Potter venuto da fuori.La nomenclatura del Pd deve continuare a fare quello che sa fare,l'imitazione del Pci.Ovvero la Lega del centro Italia.Deve coltivare gli orti elettorali delle cooperative,dei pensionati Cgil e continuare a convincere quelli come me a ogni elezione che in fondo sono meno peggio degli altri.E pazienza se del Nord non capiscono un accidente da vent'anni.Il resto,il nuovo,il Pd lo deve lasciare agli altri,a Vendola,a Di Pietro.Senza vederli come nemici.Perchè senza il 7-8 per cento di Di Pietro,senza il 10-12 di un Vendola formato Cohn Bendit,la sinistra non vincerà mai.
Questo Pd deve sperare nel solito inciucio dalemiano per formare un governo di transizione che cambi la legge elettorale.Ma non scambiare la tattica per strategia,come fa D'Alema,e illudersi che Fini e Casini vogliano suicidarsi in un cartello con le sinistre.Il Pd oggi vale al massimo il 25 per cento,quindi dovrà puntare su di un candidato esterno che se lo porti al governo.Siamo realisti,compagni:con Bersani for president non si va da nessuna parte.Il resto sono chiacchere sotto l'ombrellone.

mercoledì 1 settembre 2010

Il mio carissimo nipotino Jacopo.


Questo è Jacopo,il mio bellissimo nipote.

Partiamo da qua. Concita De Gregorio.


È vero, la mia generazione non ha fatto la guerra. Ce lo siamo sentiti dire tante e tante volte da bambini come fosse un poco una colpa, un lusso, un privilegio. Eppure qualcosa ci è rimasto, della storia dei nonni. Ci hanno insegnato fin da piccoli, per esempio, a non lamentarci. A cavarcela da soli. A trovare le soluzioni. A protestare davanti a una porta chiusa solo dopo aver cercato in tutte le forme lecite la chiave per aprirla.
Deve nascere da qui il tremendo fastidio che abbiamo di fronte ai mezzofondisti del lamento. Ai bastiancontrari di professione. Ai soloni che spiegano incessantemente cos'è che non va, cosa sarebbe meglio, sì ma il problema è ben altro, ai benaltristi. Molti di costoro non avranno mai soddisfazione: non l'avranno per statuto ed è bene lasciarli al loro destino. Continueranno a criticare, a dissentire, ad esercitare la loro penna e le loro parole nella risentita e sdegnosa protesta perché come anche i bambini che giocano coi mattoni sanno ci vuole molta più visione, molto più coraggio, molta più ostinazione e caparbia fiducia nel futuro - molto più tempo - a immaginare un castello e realizzarlo che a demolirlo con un colpo di mano.

Non c'è dubbio che la pluralità di voci, per così dire, a cui i leader del centrosinistra ci hanno abituati sia uno straordinario esercizio di libertà democratica. Non c'è neppure dubbio alcuno che arrivi un momento, sempre arriva, in cui il coro deve intonarsi e cantare "in voce sola". Ugualmente, non c'è dubbio che arrivi un momento in cui alle parole devono seguire i fatti. Un progetto, possibilmente compatibile con la realtà, da mettersi in pratica subito. Così si parte. Con la testa e con i piedi.
L'Unità cammina da molti mesi in questa direzione. Chiede a chi soffre di eccesso di protagonismo di fare un passo indietro (è possibile avere buone idee e lavorare per gli altri senza farlo in proprio e a danno del vicino? E' possibile non aspirare ad essere solisti ma contribuire col proprio strumento alla buona riuscita dell'orchestra? Crediamo di sì) e chiede a chi ha qualcosa di buono da dire di fare un passo avanti. Il rinnovamento della classe dirigente non avverrà per concessione della medesima. Avverrà se gli aspiranti innovatori si faranno avanti e se ci sarà chi li sostiene. Chi li deve sostenere siete voi, ammesso che lo meritino e non sarà solo un criterio generazionale a decidere cosa sia meglio e cosa no. Se fosse ancora qui Vittorio Foa credo che molti lo voterebbero.

Abbiamo lanciato ieri la proposta delle primarie nei collegi. Scegliamo noi, scegliete voi chi volete in Parlamento. Non lasciate che siano i partiti a imporre i candidati. E' poco? No, è moltissimo. Provate a pensare a quello che succederebbe: sareste davvero alla guida. Il resto - il programma, le scelte concrete, quelle tattiche e strategiche - non potrebbero più prescindere dalla voce di quelli che voi stessi avete indicato. Sarà questa da oggi la nostra campagna. Migliaia di persone ci hanno scritto, ieri, chiedendoci da dove cominciare. Partiamo da qui, dal nostro giornale. Gireremo l'Italia come già stiamo facendo con l'Unità mobile per raccogliere le vostre voci. Scriveteci. L'appello che trovate in prima pagina non porta firme illustri, niente premi Nobel né cantanti, per una volta. Niente sponsor politici di questa o quell'area. I firmatari dell'appello siete voi.