giovedì 30 dicembre 2010

Il profeta delle illusioni.


BARBARA SPINELLI

Silvio Berlusconi
C'E' CHI DIRA' che l'iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone. Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l'accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un'alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l'articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l'insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.

Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.

A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l'etica pubblica, esasperando lo sporco
spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l'ha usato ricorrendo a compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l'hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.

Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell'opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s'insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c'è, dietro l'apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel '94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell'uso di gas nella guerra d'Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel '38.

Un'uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all'opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall'anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.

Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: "La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali".

Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.

È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l'Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l'ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l'interiorizzazione non c'è stata. Anche tra il '43 e il '44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel '46 all'elezione dell'assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.

Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d'altro genere - il rischio di uno Stato in bancarotta - e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L'impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d'insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano ("Il Quirinale vuole un governo solido") come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.

L'opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d'opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l'equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell'interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall'inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d'opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell'informazione, autonomia della magistratura, lotta all'evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d'interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt'altro che ridicolo o provinciale.

I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L'unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna "o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono". Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell'ozio: "Sono pronti a dire ai veggenti: 'Non abbiate visionì e ai profeti: 'Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni'".

Il profeta d'illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.

Direzione Provinciale PD.Stati d'animo,preoccupazioni ed attese di fronte a una politica in movimento.


Gianni Sanna(Segretario Provinciale Pd-Oristano)
La mia introduzione alla Direzione di questo pomeriggio. E poi dodici interventi per avere una videata degli stati d’animo, delle preoccupazioni e delle richieste dei nostri quadri di fronte alla evoluzione della politica nazionale. Complessivamente quello che mi aspettavo. Forse un solo intervento era per così dire fuori posto. Comunque ci stava anche quello. Disorientamento ed aspettative in attesa della Direzione Nazionale del 13/1.

Ringrazio gli intervenuti: Caterina Pes per aver arricchito con le sue note e le sue personali considerazioni l’introduzione ai lavori, Claudio Atzori, il prof. Salvatore Zucca per l’equilibrio delle sue valutazioni, il prof. Luigi Mastino che con la consueta bravura ha interpellato il partito sulla protesta dei giovani, Antonio Solinas che ha richiamato i quadri ad un impegno forte nel territorio ed a salvaguardare le nostre rappresentanze parlamentari in caso di consultazione anticipata, Guido Tendas per l’appassionato richiamo ad un rinnovamento di cui non bisogna avere paura, Adriano Sitzia per la lucidità dell’analisi su alcuni passaggi dlla recente esperienza del pd, Momo Tilocca ed Anna Ferrara per aver dato voce al disorientamento del nostro popolo che reclama un partito riformista e di sinistra che costruisce alleanze senza perdersi all’interno delle stesse, Luigi Cossu per il forte richiamo a vivere la nostra identità nei territori, Valerio Spanu per il suo richiamo ad un partito aperto e Dolores Sanna per l’accorato invito a non perdersi in beghe interne.

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Nel salutarvi vi rinnovo gli auguri, scusandomi con ciascuno per aver interrotto le vostre festività con questo incontro della Direzione, convocata unitamente ai Segretari di Circolo.

In effetti l’incontro odierno doveva seguire la Direzione Nazionale indetta per Giovedì 23 dicembre ma poi rinviata a seguito delle votazioni in Senato sulla legge di riforma dell’Università.

La Direzione Nazionale si terrà il 13 Gennaio e tutti i segretari provinciali e regionali sono stati in qualche modo preavvertiti di convocare per la seconda metà del prossimo mese - alla presenza di un rappresentante della Direzione nazionale – un incontro delle rispettive Assemblee per discutere appunto delle determinazioni che in quell’occasione saranno assunte.

Non ho comunque voluto disdire la riunione odierna non solo per un gesto di rispetto verso coloro che l’avevano comunque appuntata nelle proprie agende, ma anche perché una libera riflessione tra noi la ritengo utile.

Anzi la circostanza che la stessa avvenga in anticipo su un pronunciamento della Direzione permette a ciascuno di noi certamente una maggiore libertà, una sorta di positiva informalità che aiuta un confronto autentico.

La mia non sarà una vera e propria relazione, semmai un’introduzione al dibattito che oggi vuole essere invece assai libero, per quanto sempre composto e costruttivo come si addice ai quadri dirigenti di un partito.

Peraltro credo che davanti all’evoluzione della situazione politica che accompagna il tramonto del berlusconismo; ai percorsi non sempre lineari del costituendo terzo polo che in fondo è stato battezzato ancor prima di nascere; al tentativo di resistere a qualunque prezzo da parte di chi non ha più una maggioranza che gli permette di governare il paese e che mediaticamente ostenta invece sicurezza e forza; a qualche incertezza determinata dal sovrapporsi delle voci e delle strategie ( anche se talvolta appaiono solo tattiche) in seno al centrosinistra ed ovviamente all’interno del nostro partito che ne costituisce l’asso portante ed insostituibile, è comprensibile apprensione e bisogno di discutere da parte dei nostri quadri e dei nostri elettori.

Ed allora ci sta che noi oggi discutiamo, ci confrontiamo. Senza isterismi, con la consapevolezza che una lunga storia – dal saldo decisamente negativo – si sta chiudendo, ma che non siamo ancora saliti in vetta alla montagna per poter scorgere chiaramente il panorama che ci sta davanti.

Io credo che questa consapevolezza sia presente in Bersani e nel nostro gruppo dirigente. Emerge dall’atteggiamento responsabile tenuto in questi mesi. Tradottosi efficacemente in quella definizione di “partito di governo temporaneamente all’opposizione”, che è poi la chiave di lettura più puntuale della linea che ha segnato l’azione della Segreteria nazionale.

Avere sempre presente il paese e la sua crisi dietro ogni nostra decisione, perché prima di ogni altra cosa viene appunto il paese; aver la consapevolezza che una grande forza politica temporaneamente all’opposizione ha il dovere di facilitare anche con la sapienza dei suoi gesti processi di decomposizione non facili all’interno di quel “modello” – culturale prima ancora che politico – alternativo al nostro e che ha permesso a B di interpretarlo per sedici anni , via via con sempre maggiori intemperanze e senza pudore, perché lo stesso entrasse in una crisi non temporanea ma irreversibile; ed al tempo stesso la difficoltà - soprattutto nostra, del Pd – di far passare l’idea che per il futuro non serve l’uomo della provvidenza ma il progetto riformista e la squadra capace di realizzarlo mentre anche a sinistra – si, anche nel nostro popolo – il berlusconismo è riuscito a fare breccia rendendo molto forte la tentazione di molti nostri elettori a rifugiarsi nella ricerca di un leader che ci prenda per mano, ci racconti una storia che ci permetta di superare la notte.

Ed ancora – permettetemi di dire – in questa stagione decisamente decadente dove le culture resistono di più delle azioni politiche conseguenti, che soprattutto noi corriamo il rischio di rappresentare il nostro riformismo in chiave distorta, come una sorta di conservazione dell’esistente rispetto ai caotici e pericolosi tentativi di riforma dell’organizzazione dello stato e della pubblica amministrazione da parte del centro destra che pure vi è stata.

Poco importa poi se la legalità del sistema, l’indipendenza degli organi ed l’imparzialità dell’azione amministrativa ne escono indeboliti; se per i più forti sarà più facile ottenere quello che chiedono, senza l’inghippo di procedure concorsuali che mettono tutti sullo stesso piano, e per i più deboli ottenere ciò che è il riconoscimento di un diritto sarà invece solo un atto di graziosa generosità dell’amministratore di turno, cui dovrà poi essere corrisposta eterna gratitudine.

In fondo sono stati gli ultimi quelli che hanno fatto vincere a Berlusconi le sue battaglie, che gli hanno permesso di rialzarsi quando era al tappetto. Quegli ultimi che noi pensavamo di interpretare e che invece non siamo riusciti neppure ad intercettare.

Perché forse gli ultimi cui noi abbiamo guardato in questi anni erano solo gli ultimi “tra i garantiti”; i più, i tanti nuovi ultimi– quelli cioè che lo sono per davvero – stavano fuori dal nostro orizzonte già da un pezzo e non incontrando noi sulla loro strada si sono aggrappati – disperati e senza prospettive – a chi poteva loro promettere ( badate solo promettere e non garantire) certo non un futuro ma solo qualche giornata. Poco importa se nella precarietà, nell’insicurezza, nella violazione di qualsiasi vincolo di solidarietà. Quando c’è il buio ognuno cerca la luce da solo. Si arrangia, insomma.

Io credo carissimi democratici che il nostro partito sia nato per questo tre anni fa. Per offrire un’opportunità diversa. Per costruirla un’alternativa vera e moderna . Perché questa non è come un vestito confezionato esposto in vetrina.

Per costruirla in modo sobrio e credibile con le abilità dell’artigiano. Ed il lavoro è faticoso. Ha tempi che sono lunghi. Certo più lunghi di quello che le continue scadenze elettorali ci richiedono.

Per me non c’è nulla più di sinistra del voler cambiare le cose. Di certo non si è di sinistra in base a una sorta di autocertificazione. Conosco gente “di sinistra” che ha concezioni inaccettabili del potere e della politica. Gente che il sistema aspira ad ereditarlo per riempirlo di famigli piuttosto che a cambiarlo per davvero.

Magari guardando con attenzione in questi ambienti anche localmente capiremo le ragioni di alcune ripetute sconfitte. E compiendo scelte coraggiose può darsi che inizieremo a vincere. Magari cominciando dalla nostra città capoluogo.

Ma per costruirla l’alternativa dobbiamo avere le idee chiare, il nostro progetto. Quelle cinque cose legate tra loro che permettano di offrire una prospettiva credibile, che permettano di illuminare la notte della crisi in modo tale che nessuno pensi di potersi salvare da solo . Perché intravedendo il bagliore della luce ciascuno possa avvertire che ci sono altri come lui, nelle sue stesse condizioni, altri che aspirano a rappresentarlo, cui stringersi per uscire più velocemente dal tunnel della crisi.

Non bastano le narrazioni. Le suggestioni delle parole che non rimandano ai contenuti. In qualche modo non basta la sola buona comunicazione, anche se certo non può mancare.

Bersani ha indicato in Piazza San Giovanni due grandi sfide cui non possiamo sottrarci: una riforma repubblicana e un’alleanza per la crescita e il lavoro. Ci ha ricordato successivamente in un’intervista a Repubblica e successivamente all’Unità che entro gennaio su questo ci sarà una proposta al paese, a tutto il paese, recuperando in extremis quella vocazione maggioritaria del nostro partito che aveva distinto la nascita del Pd per essere troppo frettolosamente abbandonata dopo la sconfitta elettorale del 2008.

Attendiamo quindi tutti la Direzione del 13 gennaio, con una certa trepidazione. Perché di quella proposta non ha bisogno solo il centrosinistra, ma ne ha bisogno il Paese.

Sapendo bene tutti noi che molte dichiarazioni in questi giorni hanno messo in difficoltà tantissimi nostri elettori, hanno creato un sacco di confusione e forse hanno persino dato l’impressione di snaturare un’impostazione politica che lo stesso Bersani aveva dato al Congresso.

La dico così perché io credo che noi abbiamo bisogno sempre di ricordarci una cosa.

Il Pd l’abbiamo fatto perché volevamo mettere prima di tutte le altre cose gli elettori.

Era un passaggio semplice.

Allora oggi non solo bisogna difendere le primarie ma bisogna difendere il senso politico della scelta di consultare gli elettori.

Bisogna consultare gli elettori anche per scegliere la direzione politica. Dove vogliamo andare e con chi vogliamo andare.

Questo è l’obiettivo che dobbiamo centrare.

Una delle cose più insopportabili della nostra recente esperienza democratica è stata l’introduzione del Porcellum. Ne abbiamo parlato tante volte.

Ce lo ha ricordato anche Bersani. Noi non dobbiamo mai smettere di combatterlo.

Ma se questa legge dovesse ciononostante sopravvivere, noi dobbiamo in qualche modo “addomesticarla”, come direbbe un caro amico, utilizzando le primarie per scegliere almeno i nostri parlamentari.

Ed il problema anche in questo caso è nel senso politico, perché il Porcellum ha introdotto il detestabile criterio che la politica si decide in pochi, che la “politica la facciamo noi che siamo i politici ed in tre, quattro, cinque si decide chi sono tutti i parlamentari”. O ai diversi livelli i nostri rappresentanti nelle istituzioni.

Dobbiamo stare attenti, perché i nostri elettori vogliono invece essere chiamati, desiderano partecipare, pretendono di scegliere.

Ed allora al nostro Segretario in queste more che ci separano dal 13 gennaio vogliamo dire che noi non abbiamo bisogno di meno confronto, di meno partecipazione, semmai ne abbiamo bisogno di più. Abbiamo degli strumenti. Bene. Utilizziamoli. Con sobrietà certo, ma utilizziamoli. Mobilitandoci. Abbiamo visto che non è poi così difficile.

Ed al nostro Segretario vogliamo anche dire in viat della data del 13 una seconda cosa. C’è il partito dell’astensione. E quello per noi è un grande problema. Certo anche per la democrazia italiana, ma soprattutto per noi. Bene i dati ci dicono, i sondaggi ci ripetono che noi abbiamo bisogno di recuperare le persone che si sono allontanate dalla politica. Ci sono delle modalità, ci sono gli argomenti.

Ebbene facciamo i conti con questo partito dell’astensione.

Proviamoci. Sappiamo che il 40% di questi insoddisfatti dalla politica, è interessato a noi.

Dicevo prima di quelle cinque cose che, legate tra loro, ci permettano di offrire una proposta credibile, una prospettiva seria e come tale sostenibile dalla maggioranza degli italiani. Partendo magari da quello stupendo secondo comma dell’art.3 della nostra Costituzione che non si limita a dirci che siamo tutti uguali davanti alla legge, ma che impegna la Repubblica, e quindi non solo lo Stato ma anche tutti i soggetti di mezzo, a rimuovere le cause di diseguaglianza, le troppe differenze che quei cittadini onesti, seri, responsabili, delusi dalla politica, trovano fastidiose ed insopportabili.

Bene. Definiamole, cosi come annunciato da Bersani l’11 dicembre.

Discutiamole nelle nostre assemblee provinciali e regionali, come si farà a gennaio.

Dopodiché confrontiamoci con la coalizione di centrosinistra, promuoviamo momenti comuni a Roma come a livello locale, perché se si va a votare ci vuole un progetto condiviso, anche per scegliere il leader.

Una coalizione nasce da un progetto comune . In una coalizione non c’è chi vince e chi perde. Non ci sono due visioni contrapposte. O si vince tutti o si perde tutti.

In Sardegna abbiamo sperimentato la seconda ipotesi ed oggi paghiamo il fio di due anni di non governo Cappellacci.

E poi una coalizione riformista non può vincere, se si indebolisce il partito che ne costituisce l’ossatura. Dico questo perché talvolta i nostri alleati provano a tenere la scena solo parlando di noi, mi verrebbe dire solo parlando male di noi, o di quelle che secondo loro sono le nostre debolezze.

Dico questo ben sapendo che con Idv e con Sel stiamo insieme, ovunque governiamo. E l’alleanza funziona. E non riesco ad immaginare una prospettiva in cui questa condivisione venga meno.

Ma il progetto viene prima delle alleanze.

Sia chiaro. Il leader si sceglie dopo.

Se su queste cinque cose per noi irrinunciabili c’è qualcun altro che si vuole aggregare e si può aggregare. Bene. Non ci sono preclusioni verso chi è stato opposizione al modello berlusconiano.

Ben sapendo che quando parliamo di alcune di esse, come di nucleare ( lo faremo anche noi il prossimo 14 gennaio, su iniziativa del nostro forum provinciale), come di diritti civili, come di lavoro i nodi verranno comunque al pettine ed emergeranno distanze incolmabili con quello che si autodefinisce terzo polo .

Perché la fiducia e la credibilità sono le parole fondamentali per recuperare il rapporto con le persone, con i delusi, con i cittadini.

E se proponiamo un’alleanza essa dovrà fondarsi proprio su quelle cinque cose in cui crediamo, per le quali possiamo essere riconosciuti come una forza democratica, riformista. I democratici appunto.

Questo di oggi sarà un dibattito preliminare, non vincolato da documenti o a documenti. Il primo passo verso quelli più impegnativi che saremo chiamati a fare insieme il prossimo mese.

Per noi è la prima videata su cui ragionare nei prossimi giorni, direbbe qualcuno. Sono certo che sarà arricchita dal contributo che ciascuno di voi vorrà e saprà dare.

lunedì 27 dicembre 2010

Assemblea del Comitato Famiglie 162


Il Comitato dei Familiari per l'Attuazione della Legge 162/98 in Sardegna segnala anche che si riunirà, mercoledì 29 dicembre a Cagliari (Salone della Chiesa di San Paolo, Piazza Giovanni XXIII, ore 16.30-18), per approfondimenti e discussioni sull'ultima delibera. Ingresso libero. Per ulteriori informazioni: comitatofamiglie162@gmail.com.

Da Superando.it
Buon Natale, Legge 162, ma dal 1° gennaio si ricomincia a discutere
(Comitato dei Familiari per l'attuazione della Legge 162/98 in Sardegna)
La nuova Deliberazione prodotta in questi giorni dalla Giunta Regionale della Sardegna migliora certamente la situazione riguardante i piani personalizzati per le persone con grave disabilità, derivanti dalla Legge Nazionale 162/98, dopo che in ottobre un precedente provvedimento aveva suscitato proteste in tutta l'Isola. Bene dunque per l'impegno di tante persone con disabilità, dei loro familiari e delle loro associazioni, per la crescita della loro consapevolezza e per il lavoro di numerosi attori istituzionali (Consiglieri Regionali, Province e Comuni). Sopravvivono tuttavia numerosi punti critici e iniquità, sui quali il lavoro dovrà cominciare sin dai primi giorni del nuovo anno, perché la Legge 162 "modello Sardegna" è una buona prassi per i beneficiari e un comune patrimonio istituzionale, rispetto al quale non si può e non si deve più tornare indietro

È stata approvata il 21 dicembre, dalla Giunta Regionale della Sardegna, la Deliberazione n. 45/18 del 2010 (Legge n. 162/98. Fondo per la non autosufficienza. Piani personalizzati di sostegno in favore delle persone con grave disabilità. Parziale modifica dei criteri per la predisposizione e l'erogazione dei finanziamenti).
Ecco, dunque, gli effetti dell'azione condotta dal basso da tante persone con disabilità, dalle loro famiglie e dalle associazioni in varie parti della Sardegna e, in prima linea, da tutto il Comitato dei Familiari per l'Attuazione della Legge 162/98, oltre che del lavoro istituzionale di questi mesi.

Prosegui la lettura qui http://superando.it/content/view/6820/112/

mercoledì 22 dicembre 2010

iPad e gioielli a spese dello Stato.La casta si fa i regali di Natale.



Dal Pd al Pdl, gli omaggi ci costano migliaia di euro. E' di 1400 euro il valore di ogni anello per le deputate, 800 il prezzo del modello più costoso di iPad
Lettere smarrite dal Partito democratico: “Caro Babbo Natale, cara Anna Finocchiaro, dov’è finito il mio iPad 64 Gb da 800 euro?”. Un bel regalo natalizio – con i soldi pubblici – che concilia moda e tecnologia. Il dono pensato (e annunciato) dal capogruppo Finocchiaro piaceva a ciascuno dei 111 senatori, calmava le decine di correnti interne: ex comunisti, ex popolari, cattolici, agnostici e atei. Per evitare doppioni sotto l’albero e spese inutili di tasca propria, la Finocchiaro comunicava ai colleghi il lieto evento già il 26 ottobre scorso: “La Presidenza sta trattando con la Apple la fornitura dell’iPad 64 Gb per i membri del gruppo. Non siamo ancora in grado di indicarvi la data della consegna”. Però. “Abbiamo ritenuto utile avvisarvi di tale scelta in considerazione dell’approssimarsi delle festività natalizie”. È così che un partito è compatto, granitico, unico. Immune (mica tanto) a tentazioni e offerte di compravendite, salti di quaglie, rane pescatrici e mercati di vacche. Come spesso accade al Pd, all’improvviso tra le mani resta un pacco, vuoto.

La senatrice Mariapia Garavaglia conosce l’indecisione cronica del Pd: “Le polemiche avranno frenato la Finocchiaro…”. Natale è vicino, cercansi iPad: “A me non serve, l’ho comprato tempo fa”. Quale omaggio per i 206 deputati democratici? “Al Senato sono più fortunati, sempre – scherza Franco Laratta – Per noi consigli di lettura: Indietro tutta, l’ultimo libro di Laura Boldrini”. La cultura nel Pd natalizio va forte. Il senatore Mario Gasbarri, sempre in forma epistolare (sarà un vezzo), distribuisce buoni acquisto per la Feltrinelli: “Da ritirare presso l’amministrazione”. Il Pdl è davvero il partito del fare: promette, mantiene. Silvio Berlusconi ha spedito ai parlamentari centinaia di iPad e una cartolina di auguri. Il presidente del Consiglio ha pure insegnato ai suoi le fasi di stoccaggio per la spazzatura: raccolta, riciclo e conferimento. Ha imparato bene la lezione un deputato milanese, fiero di sé: “Ho ritirato l’iPad, ma l’ho lasciato in auto per girarlo a un mio amico. Faccio un’ottima figura, no?”. Berlusconi ha riservato alle 37 parlamentari Pdl un anello tricolore, tre fedine create da un gioielliere piemontese: una di oro rosa con rubini, una di oro bianco con brillanti, una di oro giallo tempestata di smeraldini. Al modico prezzo di 1.400 euro, pagati sull’unghia con i soldi (pubblici) a disposizione del partito.

Il ministro (e coordinatore Pdl) Ignazio La Russa indica la strada ai colleghi con un navigatore satellitare, Mariastella Gelmini ha ordinato casse da sei bottiglie di spumante. Doni riservati ai funzionari lombardi del Pdl: anche un brindisi fa campagna elettorale. Ennesima dimostrazione di pluralismo di Futuro e Libertà: i finiani non osano fare un regalo, offrono a scelta un iPhone o un iPad. Tra chi entra e chi esce, molto sarà più chiaro studiando le preferenze di falchi e colombe. Attenzione: nel Pdl circolano solo iPad. E i leghisti? Il deputato Davide Caparini fa la morale: “Non sprechiamo i soldi pubblici per oggetti inutili. Noi ci scambiamo, a nostre spese, prodotti tipici dei paesi padani: la senatrice Rosy Mauro compra biscotti fatti a mano”. Niente regali, i leghisti chiedono: “Caro Gesù bambino, per Natale vorrei l’approvazione del federalismo fiscale”, e il ministro Roberto Calderoli colora il suo bigliettino con i pastelli e disegna un’Italia capovolta. Non mancano mai per i leghisti cravatte e pochette rigorosamente verdi.

Marco Reguzzoni, capogruppo a Montecitorio, custodisce e dispensa con equilibrio pochi esemplari di pesche sciroppate limonate, frutto raro reperibile a stagioni alterne sul lago di Como. L’Italia dei Valori fa economia: una bottiglia di prosecco per la Camera, portafogli per il Senato. L’Udc di Pier Ferdinando Casini spende di più: gemelli d’argento per gli uomini, collane d’oro per le donne. E un cestino di leccornie: “Tortellini, mortadella, prosciutto…”, elenca il deputato Roberto Rao. Ma il Natale sarà triste e avaro per decine e decine di parlamentari iscritti al Gruppo Misto. Nessuno avrà un regalino, un cotechino, un caciocavallo per chi ha sostenuto, con “alto senso di responsabilità nazionale”, il governo di Berlusconi: Antonio Razzi e Domenico Scilipoti ex Idv, Catia Polidori, Maria Grazia Siliquini, Silvano Moffa ex Fli. E tanti, tantissimi soccorritori estemporanei che scontano con l’albero nudo il voto al governo del 14 dicembre.

da Il Fatto Quotidiano del 22 dicembre 2010

martedì 21 dicembre 2010

Autorottamazioni.


Emiliano Deiana.
Domenica ero ad Oristano. Non sono andato a "rottamare" nessuno, semmai sono andato ad autorottamarmi (a 36 anni) perchè penso che l'unica cosa di buono che potrà fare in politica la mia generazione sarà"aprire " il Partito Democratico a quelli che hanno 16, 18, 20 anni. Oggi ho letto commenti di tutti i tipi: sui giornali, sui blog, su Fb. Alcuni entusiasti, altri polemici, altri altezzosi. Quel che si è fatto ad Oristano è molto semplice: si è parlato. Si è parlato di scuola, lavoro, pari opportunità, comunità locali, università, disabilità, servizi sociali, impresa, pastori e molto altro ancora. Forse troppa carne al fuoco? Forse. Molto meglio di quelle riunioni dove ci sono tre relatori (sempre gli stessi) che tengono la lezioncina. Nessuno ha buttato guano sul Partito, nessuno ha buttato guano sui Dirigenti nè Nazionali nè Regionali.

A Oristano c'erano belle persone, persone normali che dedicano parte del loro tempo al Partito e alla politica. Persone che vogliono bene al Partito Democratico anche quando i Dirigenti assumono iniziative discutibili. Persone che voglione bene al Partito Democratico anche quando a quelle iniziative rispondono con la critica. In pochi, in pochissimi abbiamo parlato di "politica" quella cosa brutta, sporca e cattiva che spaventa i cittadini. La maggior parte degli intervenuti hanno parlato di cose concrete, indicando problemi e soluzioni a problemi. Talvolta in maniera confusa, caotica. Ma è dal caos che nascono le idee migliori. E poi la genuinità dei ragazzi che affermano e vogliono affermare solo una cosa: la propria esistenza e dignità. Nella società e nel partito. Non contro nessuno, ma a favore di qualcosa.

Chi non è venuto, chi non ha avuto la pazienza di aspettare l'evolversi della giornata, chi ha giudicato senza conoscere come si sono svolti i fatti ha sbagliato. Ha sbagliato in maniera clamorosa. Chi ha bollato l'iniziativa come quella di coloro che a una casta vuole sostituire un'altra casta uguale e contraria ha preso un granchio fra i più clamorosi. A me Matteo Renzi non piace per nulla, ad esempio. E non mi "iscrivo" alla corrente (più virtaule che reale) dei rottamatori come non mi sono iscritto mai a nessuna corrente.

Sono andato lì per dire la mia, esattamente come vado in ogni posto dove penso che la mia visione delle cose - legata soprattutto alla Sardegna - possa essere utile. Sono andato lì con la mia timidezza e i miei mille difetti e complessi cercando di portare la mia esperienza nell'amministrare un piccolo comune. Ho cercato di metterci un pò di ironia che mi aiuta a vincere la sindrome da microfono. E quando c'è una platea che non solo ascolta, ma interviene e si confronta ad uscirne arricchiti siamo tutti noi. E il Partito per primo. Io non sono contrario alle allenze neanche al Centro. Ma le alleanze si fanno con chi ha i medesimi programmi e la visione di un tratto di strada da fare assieme. Le alleanze sopratutto si fanno quando si ha coscienza di cosa si è e di chi si è. Solo allora si potrà decidere dove si vuole andare.

Come ho detto nel mio intervento si deve ripartire dal senso nuovo da dare alle parole. Parole guarite e curate dai pestaggi del manganello mediatico. Parole che sono l'evoluzione di un pensiero, di una concezione e che si trasformano in fatto, in "utopia concreta". Un'utopia che si materializza e migliora la qualità della vita delle persone. E per fare questo si deve partire per forza dalle comunità locali che si amministrano. Sono migliaia i Comuni amministrati da esponenti del Pd, sono migliaia gli amministratori immersi, da mattina a sera, nell'amministrare uomini e territori. Nel prendere decisioni, nell'esplorare nuove vie allo sviluppo.

E' da qui che si può e si deve ripartire per ricollegare comunità e partito. Istituzioni e persone. L'incontro di Oristano è un passo anche in quella direzione. Un incontro a cui bisogna dare gambe e che aiuta molto il Partito e i suoi Dirigenti perchè tenta di porre un argine alla disaffezione, all'indifferenza e all'emigrazione verso il più grande "mercato" italiano: il mercato di coloro che non andranno a votare la prossima volta. I refrattari, gli scontenti, i disillusi. O non sono italiani anche quelli?

Ultime sulla 162.


La Commissione Sanità in Consiglio Regionale della Sardegna, presieduta da Felice Contu, ha espresso nei giorni scorsi parere favorevole (a maggioranza e con l’astensione dell’opposizione), sulla proposta di una nuova Delibera di Giunta, presentata dall'assessore regionale alla Sanità Antonello Liori, che modifica i criteri sui piani personalizzati per le persone con disabilità grave, derivanti dalla Legge 162/98.
È stato invece approvato unitariamente il decreto che prevede «un assegno di cura per il 2011 di 3.000 euro per le famiglie al cui interno ci sia più di una persona con una grave disabilità».
Si tratta di una questione che aveva provocato - dopo la Deliberazione di Giunta n. 34/30 del 18 ottobre scorso - le proteste delle persone con disabilità, dei familiari e delle associazioni di tutta l'Isola, ciò che il nostro sito sta seguendo quasi giorno dopo giorno.
Ora, la proposta di nuova Delibera presentata dall’Assessorato alla Sanità accoglie alcune delle richieste di modifica avanzate dal Consiglio Regionale il 18 novembre (se ne legga nel nostro sito, cliccando qui, al testo intitolato Primi passi avanti in Sardegna). «Molte delle proposte di modifica presentate dal Consiglio - secondo l'assessore Liori – sono state accolte perché ritenute valide». L’assessore stesso ha precisato quindi che il requisito richiesto per presentare il finanziamento dei piani personalizzati resterà quello del riconoscimento dello stato di handicap grave, secondo quanto stabilito dalla Legge 104/92 (articolo 3, comma 3), fino a quando un’apposita commissione non ne dichiari la decadenza. Verrà eliminato, pertanto, il criterio per cui la revisione comporterebbe un’automatica decadenza dell’accesso al finanziamento.
«È stata inoltre accolta - prosegue Liori - la richiesta di dare maggiore attenzione alla fascia di età tra gli zero e i tre anni, eliminando la certificazione medica di grave patologia e stabilendo invece la presentazione automatica del piano, con attribuzione di punteggio a seconda della gravità dell’handicap».
Tra le modifiche - oltre a quelle apportate ai criteri di attribuzione dei punteggi, che hanno determinato anche la creazione di una nuova fascia dedicata alla persone con handicap grave che vivono da sole - le più significative riguardano la riduzione in percentuale dei finanziamenti, che prevede anche una modalità di compartecipazione da parte dei soggetti beneficiari e la proroga della presentazione delle domande fino al 31 dicembre.
«Ho accolto - conclude l'assessore - il principio del Consiglio di applicare una riduzione percentuale ai piani finanziati, nel caso i fondi non fossero sufficienti a coprire tutte le domande, invece di applicare un taglio di 1.000 euro per ciascuno, come avrei preferito fare».
Si è infine stabilito che i nuovi piani saranno finanziati a partire dal 1° marzo 2011, mentre quelli già in atto continueranno a fruire dei servizi dal 1° gennaio. I Comuni, inoltre, avranno tempo fino al 10 febbraio per presentare i piani personalizzati.



Marco Espa, vicepresidente della Commissione Sanità nel Consiglio Regionale della Sardegna«Ci batteremo con le unghie e con i denti - è il commento di Marco Espa, vicepresidente della Commissione Sanità - per recuperare più punti possibile ai progetti personalizzati che hanno subito tagli iniqui con la Delibrazione del 18 ottobre». Espa ha espresso altresì soddisfazione per la proroga dei due mesi, perché «essa accoglie una richiesta delle associazioni delle famiglie e delle persone con disabilità», mentre ha giudicato problematico l'inserimento del criterio ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente), «che penalizza le famiglie in difficoltà, nonostante l'innalzamento della soglia no tax da 8 a 9.000 euro, che giudichiamo comunque positiva, anche se chiedevamo di portarla almeno a 12.000 euro».
Espa ha proposto poi una serie di altre modifiche alla Delibera, alcune delle quali sono state accolte dalla Commissione. Le più significative sono la riduzione delle fasce di penalizzazione dell'ISEE, giudicate troppo aspre, l'attribuzione di dieci punti, indipendentemente dall’età, non solo per gli affetti da disabilità congenita, ma anche per le persone con patologie acquisite, entro i 14 anni. «Anche se - precisa - avrei preferito che il limite fosse stato quello di 18 anni».
Infine l’eliminazione del comma - sostenuta anche dal consigliere di maggioranza Gian Vittorio Campus - che prevedeva come spese ritenute ammissibili solo quelle sostenute per gli educatori con apposito titolo professionale, penalizzando in tal modo l’assistenza domiciliare non necessariamente specialistica.
Bocciata invece dalla maggioranza (cinque voti a quattro) la proposta di Espa di abrogare la norma che stabilisce la detrazione delle ore di permesso dal lavoro fruite dai familiari (previste dalla Legge 104/92), dal carico assistenziale e quella sulla compartecipazione percentuale al costo delle prestazioni da parte dei soggetti beneficiari.
«A mio parere - spiega il vicepresidente della Commissione Sanità - stiamo ponendo le mani su un diritto considerandolo un privilegio, quando invece con la Legge 104 il lavoratore si assume un carico. Per quanto poi riguarda la compartecipazione, si penalizzeranno le famiglie che non hanno soldi. Per questo, nonostante alcuni miglioramenti, ci siamo astenuti dal voto, insieme ad alcuni colleghi dell'opposizione, perché riteniamo che la strada tracciata dalla Legge 162 in Sardegna sia stata finora virtuosa e vogliamo che prosegua in questa direzione, senza penalizzazioni di sorta».

Continua, nel frattempo, la protesta in varie parti della Regione, vivace soprattutto a Nuoro, come avevavmo già riferito nelle scorse settimane. Qui, infatti, è stato lo stesso presidente della Provincia, Roberto Deriu, a lanciare per giovedì 23 dicembre una mobilitazione sui piani personalizzati, all'insegna del motto Vivi con me per un giorno, inserito dall'ONU nella Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, e invitando in tal senso a partecipare i sindaci della Provincia di Nuoro, i presidenti delle Province Sarde (Deriu è anche presidente dell'Unione Province Sarde), i consiglieri provinciali dell'Isola, il presidente dell'ANCI Sardegna (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e i cittadini tutti.
In una lettera al presidente della Regione Ugo Cappellacci, Deriu ha scritto tra l'altro: «Centinaia di famiglie in Sardegna e migliaia di persone disabili vedranno i contributi loro spettanti ridursi del 70 o dell'80 percento, con evidenti ed enormi criticità e con l’impossibilità di mettere in atto interventi di integrazione e di riduzione delle difficoltà che lo spirito della legge prevede. Per questo chiedo che i criteri vengano profondamente rivisti». (S.B.)

giovedì 16 dicembre 2010

"A Oristano per dare aria nuova al PD"


("L'Unione Sarda" del 16 dicembre 2010)
La Firenze sarda è a Oristano, per il Partito democratico: è lì (teatro Garau, dalle 9.30) che domenica prossima, 19 dicembre, si riuniranno gli autoconvocati di «Prossima fermata Sardegna», iniziativa che richiama esplicitamente l'assemblea organizzata a novembre dal sindaco fiorentino Matteo Renzi. Quelli riuniti nel capoluogo toscano furono chiamati «i rottamatori», merito o colpa di un'intervista in cui lo stesso Renzi auspicava la rottamazione di tutti i dirigenti del Pd: da Veltroni a Bersani, passando per D'Alema. «Noi non rottamiamo nessuno», mette le mani avanti Laura Pisano, una delle ideatrici dell'iniziativa sarda: «È vero però che qui la politica è in mano alle stesse persone da almeno vent'anni. Vorremmo aprire le finestre e contribuire a creare una classe dirigente nuova». I RAPPORTI COL PARTITO In effetti, l'appuntamento di Oristano non è preceduto dalle stesse tensioni col Pd “ufficiale” che caratterizzarono il meeting di Firenze. Allora addirittura fu convocata negli stessi giorni, a Roma, l'assemblea nazionale del partito, e si sprecarono le polemiche tra gli uni e gli altri. Invece al teatro Garau è prevista la presenza del segretario regionale Silvio Lai, per sentire gli autoconvocati. La stessa conferenza stampa che annuncia la manifestazione si tiene nella sede regionale dei democratici. E al tavolo c'è anche il segretario provinciale di Cagliari Thomas Castangia: «Vogliamo superare le divisioni, un po' strumentalizzate, tra “quelli di Firenze” e “quelli di Roma”», chiarisce, «questo è un confronto che si è sviluppato molto nella rete web e che ha coinvolto gente che, all'ultimo congresso regionale, si trovava in correnti diverse». «Vorremmo anzi superare la divisione correntizia», aggiunge Selma Bellomo, della segreteria provinciale oristanese, «e pur senza rinnegare l'organizzazione del partito ci piacerebbe coinvolgere anche chi fa politica nelle associazioni o in realtà esterne». IL PROGRAMMA Sono già 65 gli oratori previsti all'assemblea di Oristano: come per quella fiorentina, ciascuno potrà parlare solo cinque minuti. E nonostante questo i lavori non dovrebbero finire prima delle 19, al netto della pausa pranzo tra le 13 e le 15. È probabile che in avvio si dia spazio a una testimonianza dei lavoratori del Teatro lirico di Cagliari. Gli interventi si alterneranno con letture, video e brani musicali. Non parteciperà Renzi, ci sarà però Pippo Civati, l'altro leader dei cosiddetti rottamatori. «Sia chiaro, i nostri ragionamenti vanno avanti da prima che scendesse in campo Renzi», fa presente Marco Murgia. «Il gruppo ha iniziato a formarsi dopo le Regionali del 2009», conferma Sandro Marotto. Murgia ricorda che «molti di noi si sono avvicinati al Pd proprio perché prometteva di essere un partito aperto, inclusivo, che valorizza la dialettica e le diversità interne come una ricchezza». Non si tratta di creare nuove correnti ma «di discutere pubblicamente anziché in segrete stanze». E infatti, annunciano i «non-rottamatori» sardi, a Oristano «non si parlerà di dirigenti, segretari, correnti, organizzazioni». «Da noi vale il principio “una testa un voto”, senza capibastone», sottolinea Laura Pisano. Si parlerà semmai di proposte concrete per la Sardegna, articolate attorno a cinque temi cardine: lavoro, ambiente, istruzione, sociale, buona amministrazione. LE PROPOSTE Sono stati invitati gli amministratori locali del Pd, e molti hanno aderito. L'intenzione è riuscire a formulare, al termine della giornata, una «carta» che raccolga idee e proposte per l'Isola. «Inoltre raccoglieremo le firme - riprende Castangia - per due iniziative da sottoporre al partito: il rispetto rigoroso dello statuto, che limita a tre i mandati parlamentari con al massimo il 10 per cento di deroghe, e la scelta dei candidati alle Politiche attraverso le primarie, almeno finché resterà l'attuale legge elettorale». GIUSEPPE MELONI

mercoledì 15 dicembre 2010

Il muro tra politica e Paese.


Mario Calabresi("la Stampa" del 15 dicembre 2010)

La politica chiusa nel Palazzo consuma la resa dei conti che aspetta da mesi: grida, si insulta, si conta e poi festeggia. Fuori la città brucia. Le porte del Palazzo vengono sprangate, a separare due mondi che sembrano vivere in galassie lontane anni luce.

Le colonne di fumo, le esplosioni, il clangore degli scontri, i sampietrini che volano, i caschi, le mazze, ci parlano naturalmente del passato, ci fanno pensare agli Anni Settanta, ma non è lì che dobbiamo andare per capire. Meglio guardare a Londra, ai ragazzi che assaltano le banche, che colpiscono l'auto di Carlo e Camilla, alla Grecia dei fuochi in piazza, a tutti i giovani fuori controllo che non hanno più nessun rapporto con i partiti e le loro mediazioni ma puntano allo sfascio, convinti di avere il diritto di sfogare in piazza la rabbia per una vita che si preannuncia precaria.

Le immagini di Roma fanno spavento e raccontano in modo esemplare la distanza tra una politica rinchiusa in se stessa, nei suoi riti più deteriori, e un Paese che sbanda, si incattivisce e non ha più né sogni né una direzione. I ragazzi che giocano alla guerra col casco, la benzina, il passamontagna e i bastoni non rappresentano certo gli italiani, ma la politica dovrebbe saper guardare oltre quei fuochi per vedere una maggioranza silenziosa e sfinita che non è più nemmeno capace di illudersi.

Invece la politica si blinda, si preoccupa di costruirsi una «zona rossa» per stare al sicuro, per lasciare fuori non solo i facinorosi ma tutti gli italiani, e poi dentro litiga, sbraita, eccita gli animi e non sembra in grado di produrre alcuna soluzione.

Il Paese sbanda perché da troppo tempo non è governato, perché nessuno si preoccupa di affrontare e contenere i massimalismi deliranti, di rassicurare chi ha paura del futuro e di bloccare la violenza che sta tornando a emergere. Non possiamo rischiare di perdere un'altra generazione, anche se parliamo di piccole frange, anche se non siamo al terrorismo e alle pistole.

Il rumore degli scontri di ieri richiede un sussulto di dignità del governo e imporrebbe un cambio di linguaggio delle opposizioni: non si può salire sui tetti o chiamare "cilena" la polizia italiana senza preoccuparsi di fomentare le piazze.

Il 14 dicembre è finalmente passato e Berlusconi è rimasto in sella, vincendo un'altra battaglia della sua guerra totale con Fini. Ma un governo che si salva per tre voti, conquistati nottetempo, ha poco da festeggiare: la sua unica preoccupazione oggi dovrebbe essere quella di riuscire a ritrovare la capacità di ascoltare il Paese e non quella di sopravvivere un giorno in più.

Un Paese sconfitto.


Concita De Gregorio("L'Unità" del 15 dicembre 2010)

Da dove vogliamo cominciare? Dai leghisti in aula avvolti nel Tricolore o dalle auto in fiamme e i novanta feriti nel centro di Roma, dagli pseudo manifestanti che difendono l’idv «Scilipoti dallo strapotere delle banche» e plaudono al suo sostegno al governo e alla sua liberazione dal bisogno o da quegli altri (manifestanti?) che tranquillizzano proteggendolo col braccio il finanziere che in strada impugna la pistola? O forse dalla fine, dal bacio di Berlusconi a Casini e quel che racconta e promette?

Il governo ottiene la maggioranza alla Camera per tre voti - 311 a 314 - e da qualunque parte la si guardi, la giornata campale di ieri, da qualunque fotogramma si decida di partire è una giornata cupa, grottesca, ridicola, misera, a tratti tragica: in strada tragica. È la giornata della sconfitta: la giornata che segna la sconfitta della politica intesa come confronto di idee e di progetti, l’unico modo lecito di intenderla, la sconfitta di un paese che esibisce al mondo intero come successo la tenuta di un governo che compra col denaro e col ricatto i parlamentari che gli servono e una piazza che dice che la sfiducia è nelle strade, che siamo a un passo dall’irreparabile, che basterebbe niente, ma proprio niente, per trasformare la guerriglia urbana in guerra civile e a poco varrebbe dopo cercare i colpevoli. Dopo è sempre troppo tardi. La tensione sociale è altissima, la distanza tra le scene vissute per strada e quelle viste a Palazzo enorme: per uno Scilipoti o una Polidori che si garantiscono i favori del premier, accolti in saletta riservata per i ringraziamenti, ci sono - fuori - migliaia di manifestanti, i campani travolti dall’immondizia e gli aquilani dalle macerie, giovani esasperati a cui nessuno farà altrettanti favori, che siano o non siano strangolati dai tassi d’interesse delle banche come il deputato messinese eroe d’un giorno, o di quel giorno lapide.

Ha perso l’opposizione, di un soffio. Perché si possono fare in tanti modi i conti di poi ma non c’è nessun dubbio che se Razzi e Scilipoti, eletti con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, avessero votato con il partito che li ha messi in lista sarebbe finita 313 a 312, il governo battuto. Ha perso Fini perché è altrettanto vero, scegliendo un altro conto del poi, che se le due deputate del suo gruppo - Polidori e Siliquini - avessero seguito le indicazioni di Futuro e libertà il risultato finale sarebbe stato lo stesso, nonostante i mutui estinti e le università private finanziate (promesse, poi vedremo) ai due idv. Ha perso il Pd e non tanto per Calearo, su cui tutti oggi si accaniscono ma che da tempo aveva traslocato all’Api di Rutelli prima, al gruppo misto poi e infine a quell’improbabile gruppetto di sedicente "responsabilità" - si sapeva, di Calearo, e da molto: le sorprese sono state altre - ma perché non è stato possibile, evidentemente e per ragioni che i mesi a venire diranno, chiudere un’intesa su una possibile legge elettorale che tenesse insieme una maggioranza alternativa. In questo gran parte ha avuto Casini, che con tutta evidenza - baciato in pubblico dal premier - non ha perso niente come è solito fare, non vince e non perde quasi mai. Una certa parte l’ha avuta anche la sinistra di Vendola che reclama elezioni, orizzonte del resto prima o dopo inevitabile e oltretutto davvero in queste condizioni salutare.

L’unico problema sembra essere che si andrà molto probabilmente a votare con questo stesso sistema elettorale: quello che ha prodotto i Razzi i Siliquini i Calearo che difficilmente sarebbero stati eletti se la scelta fosse davvero in mano agli elettori.

Ha perso persino colui che in serata con voce impastata vanta da Bruno Vespa di aver vinto: perché ha vinto, sì, ma ha vinto la sua convinzione - fondatissima: purtoppo in questo B. ha ragione - che si trova sempre qualcuno da corrompere, c’è sempre all’ultimo minuto qualcuno da convincere, con le buone o le cattive da comprare. Diceva Bossi, in aula, un momento prima del colpo di scena: tranquilli, abbiamo anche l’ultimo voto. Ce l’avevano, in effetti. È comparso sotto le spoglie gentili della deputata umbra Catia Polidori, futurista di cui nessuno aveva sino ad allora dubitato, salutata in aula da un applauso scrosciante a mani alte di La Russa e dei suoi sodali, causa di una rissa che fa sospendere la seduta, l’esperto Menia che divide i colluttanti, il grosso Corsetto che si frappone, Fini che sospende i lavori. Battutacce, fischi, applausi. Di Catia Polidori hanno scritto per settimane e in tempi non sospetti il Corriere la Repubblica e i massimi quotidiani finanziari che fosse parente stretta di Francesco Polidori, il signor Cepu, quello che aveva assicurato a Berlusconi una capillare campagna di porta a porta, quello che ha di recente ottenuto - votato anche da Catia - i favori di una legge che fa grande beneficio al suo istituto per studenti difficili di famiglie facoltose. Ieri in tarda serata, dopo che Luca Barbareschi aveva detto «è stata minacciata, le hanno giurato che avrebbero fatto chiudere la sua società», la deputata Polidori ha smentito di essere legata da parentela al suo omonimo: sono solo vicini di casa, ha detto, in una frazione di Città di Castello che conta 30 abitanti, evidentemente in maggioranza Polidori. Coincidenze.

Siamo sconfitti noi, tutti noi italiani che da settimane siamo costretti ad occuparci dei casi privati - le prime mogli, le aziende, i mutui - di deputati di terz’ordine ci cui nessuno fino ad oggi aveva sentito parlare e che all’improvviso diventano portatori di un immenso valore marginale, decisivi per le sorti del paese. Se il signor B resta in sella lo si deve a gente come Siliquini, Catone, Cesario, Razzi, Grassano, astenuti Moffa e Gaglione, qualcuno di voi sa dire in cosa si siano distinti finora, a parte - forse - le loro rispettive professioni? Alcuni di loro hanno tenuto ieri l’aula col fiato sospeso fino all’ultimo: mai nessuno, immaginiamo neppure in famiglia, aveva atteso l’arrivo di Scilipoti con tanta apprensione. Mai l’ingresso in aula di Giulia Cosenza, madre imminente, era stato salutato da tanto sollievo. Federica Mogherini e Giulia Bongiorno, le altre partorienti, accolte da applausi di metà emiciclo. Può un governo dirsi vittorioso a queste condizioni? Possono gli italiani riconoscersi in un simile sistema di rappresentanza? Si può sperare qualcosa di meglio con queste stesse regole, per l’avvenire?

Chi ha più soldi e più potere vince, è questa l’unica regola. Chi ha più soldi, chi può pagare di più e minacciare più forte, chi è più persuasivo. Non è più una questione di idee, la politica non c’entra: il gruppo dei finiani si è smarcato in nome di un’idea, ha cambiato posizione in nome di un dissenso. Ha provato a immaginare una destra possibile senza e dopo il signor B., senz’altro anche immaginando il proprio avvenire: politico, tuttavia. Il proprio avvenire politico. Non un’opposizione da sinistra: un’opposizione da destra. In questo caso ha prevalso l’immediata competizione interna che si scatena ad ogni latitudine fra aspiranti bracci destri del capo: Moffa - e non è il solo a pensarlo - ha chiesto le dimissioni di Bocchino, ieri. Troppo potere a Bocchino, troppo in vista, troppo favorito: perché lui sì e noi no?

Dentro questo: Melania Rizzoli avvolta al tricolore e l’avvocato Consolo fischiato per aver detto no, gesti dell’ombrello e cori, baci alle dame, favori al cavalieri. Fuori la guerriglia. Roma, in una giornata prenetalizia, deserta: mezzi pubblici sospesi e blindati a transennare le strade, passanti inconsapevoli e turisti sbigottiti. Poi le fiamme, auto bruciate e letame che vola, sampietrini petardi bastoni, agenti in borghese indistinguibili dai manifestanti, manifestanti resi irriconoscibili dai caschi. Studenti delle medie che riparano a casa degli amici per paura, insegnanti che chiamano casa dicendo i ragazzi li teniamo a scuola, fuori c’è pericolo.

Non è una capitale che abbia vinto niente, questa. Non è normale dissenso, non è un Italia in cui continuare a vivere, o per chi lo preferisca tirare a campare, sereni. Non si tira a campare così. Chissà cosa pensa davvero Bossi, che oggi all’improvviso dice con insolita indulgenza verso il detestato Casini che non c’è “nessuna preclusione verso l’Udc”. Chissà se davvero il morbido intervento del suo Giampero D’Alia prelude a una nuova intesa con gli ex democristiani oggi perno del terzo polo, se il terzo polo farà da terza gamba al governo Scilipoti. Ogni tempo ha i suoi trenta denari, diceva l’altra sera Casini in tv. Giuda era uno, però. Qui c’è la fila, col numero in mano. Quindici giorni di troppo, aveva detto Bersani quando la fiducia fu fissata al 14 dicembre con pausa di chiusura delle Camere. Aveva ragione. Due settimane di mercato di troppo. Ora, all’orizzonte, non resta altro che un vivacchiare scambiandosi di volta in volta il sacco dei denari. O il voto, certo.

lunedì 13 dicembre 2010

Il palazzo degli incredibili.

13/12/2010
"La Stampa"



LUCA RICOLFI

C’è qualcosa di surreale nel dibattito di questi mesi in Italia. Se provate a fare una statistica delle parole più ripetute da giornali e televisioni troverete che sono parole come Berlusconi, Fini, Bocchino, Fli, fiducia, sfiducia, maggioranza, voto. Da mesi l’Italia è appesa a un malsano sentimento di sospensione, di incertezza, di attesa. Prima l’attesa per il discorso di Fini a Mirabello (5 settembre), poi quella per il discorso di Berlusconi in parlamento (voto di fiducia del 29 settembre), poi quella per il discorso di Fini a Bastia Umbra (7 novembre), infine quella per il discorso che Berlusconi terrà domani, seguito dal doppio voto di fiducia (al Senato) e di sfiducia (alla Camera). In mezzo le esternazioni di Bersani, di Casini, di Bocchino, le decine e decine di interviste dei leader minori, per non parlare delle penose conferenze stampa dei parlamentari in procinto di cambiare bandiera.

E tutto questo per che cosa? Per un voto che, comunque vada, servirà solo a decidere una manche della partita a tennis che Berlusconi e Fini da due anni stanno giocando sulla pelle di tutti noi. Vista dall’esterno, ad esempio da un qualsiasi Paese europeo, è una situazione ridicola, per non dire tragica.

Mentre il mondo vive una delle più drammatiche crisi dei rapporti internazionali dai tempi della caduta del Muro di Berlino, mentre le economie avanzate si trovano di fronte a rischi immensi (da una stagnazione di anni, fino al crollo dell’euro e del dollaro), mentre gli esperti si dividono sulle migliori terapie da adottare, noi - e dicendo noi parlo innanzitutto dell’informazione - perdiamo ancora del tempo e dell’attenzione a interpretare una frase di Bocchino, a decodificare una battuta di Bossi, a indovinare le intenzioni di un parlamentare «corteggiato» (per non dire altro). Un doppio provincialismo attanaglia il discorso pubblico: siamo provinciali perché parliamo sempre e solo dell’Italia, ma siamo provinciali anche perché, con gli immensi problemi economico-sociali che l’Italia ha di fronte, con le enormi difficoltà che ci attendono, permettiamo al nostro ceto politico di baloccarsi nei suoi giochi di palazzo, nelle sue vanità, nelle sue miserevoli rivalità personali, senza mai metterlo di fronte alle sue responsabilità vere. Che non sono di salvare un governo, o di costituirne uno nuovo, ma di offrire soluzioni credibili. Possibilmente più credibili di quelle che l’attuale governo ha fornito fin qui. A me non pare che i protagonisti dell’attuale tempesta in un bicchier d’acqua parlamentare lo stiano facendo. Non mi pare che siano minimamente credibili.

Non è credibile Berlusconi, che si è permesso il lusso di governare mediocremente in una situazione che avrebbe richiesto ben altre priorità (quanto tempo è stato dissipato sui problemi giudiziari del premier?) e ben altro coraggio (come si può pensare di combattere gli sprechi con i tagli lineari?).

Non è credibile Fini, la cui giusta battaglia per una destra moderna (e normale) è compromessa dai modi in cui viene combattuta e dai soggetti che la conducono. Agli osservatori non accecati dalla passione politica è fin troppo evidente che la scoperta dei limiti del berlusconismo è tardiva, strumentale e insincera. E ancor più evidente è la scorrettezza di combattere una rancorosa guerra politico-personale dalla posizione di presidente della Camera, una scorrettezza istituzionale che le opposizioni non stigmatizzano solo perché, in questa fase, fa loro gioco.

Ma non è credibile, purtroppo, neppure Bersani. Il quale ha perfettamente ragione quando dice che, con i mercati finanziari in agguato, con gli enormi problemi del nostro debito pubblico, non possiamo permetterci di andare alle urne ora. Ma dimentica di aggiungere che, altrettanto se non più pericolosa per la stabilità dell’economia, è la prospettiva su cui l’opposizione di sinistra mostra di giocare le sue carte: quella dell’apertura di una «fase nuova», una stagione di negoziati e manovre politiche il cui sbocco sembra essere un governo degli sconfitti alle ultime elezioni, pudicamente battezzato «governo di responsabilità istituzionale».

Non sono fra quanti assumono che siamo ormai fuori dal regime parlamentare, e che quindi la caduta di un governo implichi automaticamente il ritorno alle urne. Su questo la penso come Giovanni Sartori: la flessibilità dei regimi parlamentari, in virtù della quale, caduta una maggioranza, si può tentare di costituirne un’altra, non è un difetto ma semmai un pregio di tali regimi. Però est modus in rebus. Un conto è ritoccare una maggioranza, un conto è capovolgerla. E, anche ammesso che si voglia e si possa varare un governo degli sconfitti, il punto essenziale è uno solo: un governo per fare cosa?

E’ qui che l’opposizione rivela tutta la sua inconsistenza. Non solo perché è divisa persino sulla legge elettorale (l’unico suo vero cavallo di battaglia), ma perché nessuno ha finora prodotto risposte convincenti alle domande fondamentali. Ad esempio: sulla politica economico-sociale seguireste le idee di Ichino o quelle di Vendola? Quelle dell’ala riformista del Pd o quelle della Cgil? Ancora più sacrifici per ridurre le tasse sui produttori, o più spesa per salvare l’università, la ricerca, la cultura? Un federalismo più responsabile o più solidale? E soprattutto, visto che la torta non cresce più, dove trovare i quattrini di cui c’è bisogno?

Né basta rispondere con le solite formule: riduzione dei costi della politica, contrasto all’evasione fiscale, lotta alle rendite. Su quei versanti le risorse ulteriori che si possono reperire in tempi brevi sono molto scarse (costi della politica), o sono già contabilizzate fin troppo ottimisticamente nella manovra finanziaria (evasione fiscale), o sono armi a doppio taglio (che ne sarebbe delle aste sui titoli di Stato se, in questo frangente, l’Italia decidesse di tassarli di più?). Sono convinto anch’io che ci voglia una nuova agenda economica, e che il prudente attendismo di Tremonti non basti più. Ma il punto è che chiunque aspiri a guidare una nuova politica economica e sociale non può cavarsela con formule propagandistiche. Perché il primo problema di qualsiasi governo europeo in questa fase non è di convincere i propri cittadini, ma di convincere anche i mercati. La mia impressione è che molti critici di Tremonti semplicemente non si rendano conto degli ordini di grandezza in gioco: mentre si discute di alcune centinaia di milioni in più o in meno a qualche ente locale o ministero o istituzione, non ci si rende conto che un aumento anche di un solo punto del costo del nostro debito pubblico ci può presentare, di colpo, un conto da 18 miliardi di euro all’anno, una somma pari ad una Finanziaria e 50-100 volte superiore alle cifre di cui con tanto accanimento si parla e si negozia in questa stagione di tagli.

Per questo la vacuità dell’opposizione è un problema per l’Italia. Se cacciare Berlusconi, o «aprire una nuova fase», bastasse per avviarci a una soluzione dei nostri problemi, non troveremmo nulla di preoccupante nella deriva identitaria del Pd, nel tentativo di Bersani di «scaldare i cuori» più e meglio di Nichi Vendola. Ma purtroppo non è così. Il rischio non è che Berlusconi resti in sella, visto che al suo disarcionamento stanno già lavorando il tempo, la (non infinita) pazienza degli italiani, nonché la sua attitudine ad «autoribaltarsi», come causticamente ha fatto notare Bersani. Il rischio vero è che, nel momento in cui Berlusconi sarà costretto a farsi da parte, non ci sia nessuno abbastanza credibile, e abbastanza ferrato, da saper portare la nave dell’Italia al riparo dalla tempesta che l’attende.

Discorso di Pierluigi Bersani a Piazza San Giovanni di sabato 11 Dicembre 2010.



Come due anni fa al Circo Massimo oggi a San Giovanni presentiamo il volto di un grande Partito popolare. Siamo qui per dare un messaggio all’Italia. Un messaggio di fiducia e di cambiamento.
Ecco quello che pensiamo: pensiamo che l’Italia sia ben migliore di ciò che le capita ormai da troppo tempo. Pensiamo che non si possa più andare avanti così. Berlusconi deve andare a casa. Ci vuole un passo avanti in una direzione nuova. L’Italia deve cominciare a togliersi il berlusconismo dalle vene, deve scrollarsi di dosso un populismo personalistico, propagandistico e impotente.


L’Italia ha bisogno di una democrazia costituzionale rinnovata, di una democrazia solida e normale.
L’Italia ha bisogno di una democrazia costituzionale rinnovata, di una democrazia solida e normale, capace di funzionare e di dare qualche risposta ai problemi della gente, non a chiacchiere ma a fatti.


C’è una crisi seria per un tempo non breve. Ma ci sono energie buone e grandi capacità
C’è una crisi seria, che ci accompagnerà per un tempo non breve; c’è il rischio di un peggioramento delle già difficili condizioni di vita di milioni di italiani, c’è un orizzonte incerto per la nuova generazione. E ci sono tuttavia energie buone, grandi capacità, disponibilità, e ci sono ricchezze in questo nostro Paese: tutte risorse che possono essere messe in movimento.

Serve un grande sforzo collettivo, dove chi più ha deve dare di più.

C’è da organizzare un grande sforzo collettivo, uno sforzo di cambiamento, dove chi ha di più deve dare di più. Ci vuole un cambio di passo. L’uomo solo al comando, il “ghe pensi mì” non può risolvere questo problema.

Le ricette della destra non sono adeguate.
Le ricette della destra non possono caricarsi di questo compito. Bisogna creare una nuova situazione politica. Lo sappiamo, non si può certo cambiare in un giorno, con la lunga vicenda che abbiamo alle spalle e che stiamo ancora vivendo. Non lo si fa in un giorno, non c’è l’ora X!



Non è ora X, ma passaggio cruciale.


E tuttavia siamo a pochi giorni da un passaggio cruciale in Parlamento; può affacciarsi la possibilità di sancire formalmente la crisi politica del centrodestra.


E’ ora di riconoscere che se siamo arrivati a questo punto lo si deve molto al nostro lavoro.

Sarà finalmente ora di dire che se siamo arrivati a questo, c’è molto del nostro lavoro. E’ ora che ce lo riconosciamo noi stessi, se vogliamo che altri ce lo riconoscano. Solo due anni fa la scena era questa: una vittoria del centrodestra con una maggioranza senza precedenti nella storia recente del Paese; tutti ad omaggiare i vincitori, presupponendone l’eternità. Una sorta di pensiero unico che si diffondeva. L’opposizione a rischio di diventare il ricettacolo di tutte le frustrazioni e le impotenze, messa dal berlusconismo nell’angolo più difficile di tutte le democrazie mondiali.

Dopo vittoria della destra, tutti a omaggiare i vincitori e si è diffuso pensiero unico.
Noi non siamo caduti nel pensiero unico e nella frustrazione. Nonostante le difficoltà ci siamo sempre ritenuti un Partito di Governo momentaneamente all’opposizione.

Ma noi non siamo
caduti nella frustrazione. Abbiamo visto per primi la crisi e il varco che si sarebbe creato tra la propaganda e la realtà.

Abbiamo visto per primi la crisi e il varco che necessariamente si sarebbe dovuto creare fra la predicazione propagandistica del Governo e la realtà della vita comune. Abbiamo battuto tutti i giorni quel chiodo. E quando la distanza fra parole e fatti è diventata più evidente, quando è diventato più chiaro che i problemi marcivano mentre la politica era costretta a girare attorno ai problemi diurni e notturni del Premier, allora si è aperta la crisi del centrodestra. Non c’entrano le ville. E’ per la perdita di presa del Governo sulla situazione reale che si è aperta questa crisi e che una parte della destra ha cominciato a pensare al dopo e a mettersi in movimento.


Non abbiamo offerto l’occasione perché si ricompattassero.
E noi che cosa abbiamo fatto, allora? Abbiamo messo tutti nel mucchio come ci suggeriva qualche tifoseria o qualche focoso amico? No. Abbiamo lavorato nella nostra autonomia, nella nostra distinzione, perché non andasse sprecato nessuno degli spazi critici che si aprivano verso il modello populista e berlusconiano.

La mozione di sfiducia al momento giusto, non tutti i giorni come le solite tifoserie e i soliti focosi amici ci suggerivano.
E abbiamo messo noi, al tempo giusto, la mozione di sfiducia, al tempo giusto, non tutti i giorni come le solite tifoserie e i soliti focosi amici ci suggerivano. Fatemelo dire, adesso. Ce l’abbiamo la patente per fare l’opposizione, perbacco! Non abbiamo bisogno di maestri che ci tirino la giacca tutti i giorni. Credo che lo si sia visto.


Non abbiamo bisogno di maestri che ci tirino la giacca.
E adesso siamo qui, a pochi giorni da un appuntamento parlamentare importante. Una giornata incerta, sì, ma non tanto incerta da non far vedere una cosa. La crisi politica del centrodestra c’è, ed è senza rimedio, e in ogni caso martedì prossimo, comunque vadano le votazioni, questa crisi sarà certificata. O pensano di risolverla con la compravendita di qualche voto, con pratiche vergognose che fanno arrossire l’Italia davanti a tutte le democrazie del mondo!

Crisi politica del centrodestra è senza rimedio. E non si risolverà con pratiche vergognose.
Pensano di cavarsela così? Facendo rifornimento con un deputato o due, dove sperano di arrivare, a Natale? Alla Befana? Per vedere se mai lasciasse nella calza qualche altro deputato? No. Non possono più andare avanti, questa è la verità e noi in ogni caso combatteremo la nostra battaglia da una posizione più avanzata.

Loro non possono più andare avanti. E noi combatteremo da una posizione più avanzata.
Certamente noi lavoreremo fino all’ultimo momento perché da quella giornata venga un primo passo su una strada nuova, venga il segno che si può cominciare a voltare pagina fino all’ultimo lavoreremo come abbiamo lavorato, e bene, fin qui con i nostri Gruppi Parlamentari e non con le compravendite ma con la battaglia politica.

C’è un’intera fase della storia politica italiana da oltrepassare.
Ma, care democratiche e cari democratici, noi sappiamo bene che oltre la prossima settimana c’è un cammino davanti a noi e davanti all’Italia. Non si tratta solo di cambiare un Governo. C’è una fase della storia politica italiana da oltrepassare. C’è una questione di sistema da affrontare. Ormai sedici anni fa, dopo la caduta del muro e dopo tangentopoli, Berlusconi si affacciò nel vuoto e nel discredito della politica e propose una persona e un modello. Una scorciatoia personalistica contro l’inefficienza del sistema, l’oppressione dello Stato e della burocrazia, l’impotenza e le vergogne della politica. Promise più libertà e meno tasse, propagandò un modello individualista. Si scagliò contro il Palazzo e se ne fece uno tutto suo, e con le porte piuttosto girevoli, come abbiamo visto dopo! Accumulò potere politico, economico, mediatico; utilizzò le spinte antisistema della Lega fino ad occupare l’ultimo decennio, il primo del nuovo millennio, governando sette anni degli ultimi nove, costruendo un partito personale e padronale, mettendo a comando il Parlamento con una opportuna legge elettorale e concentrando nelle sue mani un potere senza precedenti nell’intera storia repubblicana.

Dopo sedici anni e quattro governi Berlusconi, possiamo tirare qualche somma: il bilancio è un disastro. Adesso la domanda è: dopo questi sedici anni e dopo quattro Governi Berlusconi, dopo un decennio dominato da lui possiamo tirare qualche somma? E lo chiedo anche agli elettori del centrodestra, possiamo tirare qualche somma o dobbiamo aspettare tutto il millennio? Se tiriamo le somme, si deve dire che il bilancio di questi anni è disastroso.

Con la destra al governo più disuguaglianze, meno consumi, meno investimenti e più evasione fiscale, più corruzione e meno prospettive per i giovani.
Il nostro Paese non è migliorato in niente. Ci siamo visibilmente allontanati dai Paesi forti dell’Europa. Abbiamo perso posizioni su posizioni in tutte le classifiche immaginabili e possibili: dalla ricchezza per abitante, al numero degli occupati, alle prospettive dei giovani, agli investimenti per la ricerca, all’andamento dei consumi, all’andamento del debito pubblico, all’aumento delle diseguaglianze, al divario nord-sud, all’evasione fiscale, al peso della burocrazia, alla diffusione di corruzione e illegalità. Potrei far notte continuando l’elenco. Un vero disastro. L’unica classifica che grazie a Berlusconi abbiamo rimontato è quella del nostro posto nelle barzellette del mondo, del nostro posto nel discredito del mondo!

Con la destra al governo deperimento dell’etica pubblica, della dignità delle istituzioni; doppia morale per i potenti; stereotipi insultanti per la dignità della donna; condiscendenza verso il razzismo.
E c’è qualcosa che è avvenuto, di meno misurabile ma ancora più grave. Il deperimento dell’etica pubblica, della dignità delle istituzioni e della politica; l’idea di una doppia morale consentita ai ricchi e ai potenti; il riaffacciarsi di stereotipi insultanti per la dignità della donna, la condiscendenza verso la mentalità pararazzista. Dunque, tirando finalmente le somme della lunga fase iniziata tanti anni fa, dobbiamo dire che solo il centrosinistra nel corso degli anni novanta ha affrontato con serietà e rigore e a viso aperto i problemi di fondo del Paese: problemi di risanamento, di riforma, di grande prospettiva europea, con guide autorevoli e programmi coraggiosi confluiti tutti nell’Ulivo di Romano Prodi, che vogliamo salutare qui con grande affetto come la personalità riassuntiva di una grande stagione di impegno. Ma dobbiamo purtroppo dirlo: molto di tutto questo è stato svilito e grandemente compromesso dai Governi berlusconiani e leghisti.

Il governo ha fallito perché ha fatto solo propaganda. Hanno sempre bisogno di un nemico e generano così disunione, contrapposizione, tifoseria.
Quei Governi hanno fallito. Hanno fallito perché hanno ridotto l’azione di governo a strumento di propaganda, alla predicazione dei cieli azzurri fino a vendere miracoli a buon mercato o addirittura miracoli a rate come a Napoli e all’Aquila. Hanno fallito perché si sono avvitati sui problemi del Capo dimenticando i problemi degli italiani; hanno fallito perché il loro meccanismo populistico ha sempre bisogno del nemico generando così disunione, contrapposizione, tifoseria, una rottura profonda fra gli italiani che non si era vista nemmeno ai tempi della guerra fredda.

All’ombra del
capo vi sono state relazioni speciali, cricche di ogni genere, degenerazione. Hanno fallito perché all’ombra del Capo sono inevitabilmente fiorite relazioni speciali, personali e quindi cricche di ogni genere e specie, indebolimento delle regole fino a fatti di degenerazione e di corruzione.

Governo a favore di rendita e privilegi.
Hanno fallito infine perché hanno preso a rovescio il grande tema economico e sociale: sono stati con la ricchezza, sono stati con la rendita, sono stati con il privilegio e hanno così disarmato le leve della crescita: la famiglia, il lavoro, l’impresa, la conoscenza. Hanno fallito e se hanno fallito non può sempre essere colpa degli altri: dei comunisti, dei giornali di sinistra, dei giudici, dei traditori, degli americani o dei marocchini, dei complotti internazionali. Caro PDL e cara Lega, ve lo chiedo ancora: avete governato per sette anni degli ultimi nove. Quanto anni volete governare prima che sia colpa vostra?

Di fronte a crisi internazionale hanno negato il problema. Ma il frutto più amaro e pericoloso del loro fallimento lo abbiamo misurato all’incrocio con la crisi internazionale, la più grave in cinquant’anni. Lì, a quell’incrocio nel quale siamo ancora, la destra italiana ha consumato la sua colpa più grave. Ha disarmato il Paese sacrificandolo alla sua propaganda.

Hanno disarmato il Paese di fronte alla crisi.
Invece di dire: “c’è il problema” ha detto: “non c’è il problema”. Invece di dire “stiamo perdendo ricchezza per il doppio degli altri” ha detto: “stiamo meglio degli altri”. Invece di dire: “il lavoro, l’occupazione sono il primo problema” ha detto: “l’occupazione non è un problema”. E dicendo tutto questo ha agito di conseguenza, cioè a rovescio. Io sto da mesi rivolgendo una domanda a quei commentatori e a quegli osservatori che da ogni lato hanno fatto le pulci a noi per non offendere il manovratore e ci hanno descritti come incapaci a presentare proposte alternative.


Bruciati miliardi per favorire gli evasori.
Ancora una volta, qui da San Giovanni, rivolgo a loro una domanda: chi aveva ragione due anni fa, dopo le elezioni, quando bisognava impostare la politica economica della legislatura? Loro dicevano, Tremonti in testa, che non c’era problema e quindi regalarono un bengodi alla modica cifra di 4 o 5 miliardi ai possessori dei 100 miliardi fuggiti, evasi e riciclati col più vergognoso condono della storia, o quando buttarono via, a dir poco, una dozzina di miliardi fra Alitalia, abolizione dell’ICI ai più ricchi, soldi agli straordinari, abolizione della tracciabilità dei pagamenti.


Noi dicemmo invece: c’è la crisi, mettete quei soldi per abbassare le tasse sulle famiglie a reddito medio basso, per favorire i consumi, e usate i comuni per un grande piano di piccole opere che partono subito e possono dare lavoro”.
Noi allora dicemmo: “c’è il problema. Date subito il messaggio giusto, fate subito la cosa giusta: mettete dei soldi per abbassare le tasse su famiglie e pensionati a reddito medio-basso per favorire i consumi e usate i Comuni per un grande piano di piccole opere che partono subito per dare un po’ di lavoro”.


Avevamo ragione noi. Abbiamo sempre dovuto aggiustare i disastri della destra.Chi aveva ragione? Si può avere una risposta? Quello fu l’inizio di tutto e fu un delitto, non un errore. E da lì in poi, una fase di decreti inutili, di voti di fiducia, di sordità verso la voce dell’opposizione, di propaganda pura. E tutto questo è stato venduto in nome del rigore e della tenuta dei conti. Ma quale rigore?

Bisogna dare una mano a chi è sul fronte della crisi.
Non ditelo a noi che abbiamo sempre dovuto aggiustare i vostri disastri; e per favore non ammoniteci con la Grecia che è stata portata al disastro da un Governo di centrodestra amico vostro e che oggi deve affidarsi al centrosinistra per risalire la china! Ma quale rigore? Rigore vuol dire che chi ha di più deve dare di più e che si deve risparmiare sul superfluo per dare una mano a chi è sul fronte della crisi e può tirarci fuori dai guai. Questo è il rigore. Con il loro cosiddetto rigore hanno aumentato le diseguaglianze, hanno ridotto la fedeltà fiscale, hanno massacrato gli investimenti nel pieno della recessione, sono riusciti nel miracolo di aumentare la spesa corrente nonostante i tagli micidiali alla scuola, all’università, alla cultura, alle politiche sociali della famiglia, agli Enti Locali. Con il loro bel rigore ci troviamo con la crescita più bassa d’Europa e con il debito più alto. E con la propaganda del rigore hanno tolto la voce ai problemi veri. Crisi industriali abbandonate, lavoratori, insegnanti, ricercatori e immigrati che per farsi vedere devono andare sui tetti o sulle isole. Piccole imprese che saltano nel silenzio generale non solo perché non c’è lavoro ma anche perché nessuno paga più, a cominciare dallo Stato. Collette fra le famiglie per far funzionare la scuola dell’obbligo. E i libretti della spesa che dopo quarant’anni ricompaiono nelle botteghe dei nostri paesi. Altro che social card! Libretti della spesa, caro Tremonti, proprio quelli di una volta! E intanto le mafie, che invece hanno i soldi in mano, arraffano a destra e a manca al nord e al sud imprese e patrimoni. Tutti problemi oscurati, zittiti mentre la discussione politica veniva portata sui Lodi Alfano, i legittimi impedimenti, il processo breve. Problemi oscurati, mentre si imbastivano riforme a chiacchiere.

Il federalismo e ronde padane perse nel bosco. Dicono Roma ladrona e hanno votato tutte le leggi per i ladroni.
La beffa del federalismo mentre si mettevano in ginocchio i Comuni. Il federalismo, che si sta perdendo nel bosco come le ronde padane, come le invettive a Roma ladrona di chi ha votato tutte le leggi per i quattro ladroni di Roma!

Scuola, università, cultura: non sono riforme, ma tagli. Riforme a chiacchiere, fino a chiamare riforma della scuola, dell’università, della cultura l’unica operazione che si sia vista nel mondo di riduzione dell’offerta formativa, di tagli strutturali all’intero sistema della conoscenza. Operazioni condotte con arroganza incredibile e veri e propri insulti alla verità. Cari Ministri, se i ricercatori si sono messi sui tetti non è perché siamo andati a trovarli noi, è perché ce li avete mandati voi! E a proposito di arroganza, caro Ministro, qui aspettiamo ancora di vedere i suoi voti.
Ecco, care democratiche e cari democratici, questa è la storia di un fallimento e questa è la ragione vera e profonda della crisi che si è aperta nella destra e della sensazione, oramai molto diffusa, che così non si può andare avanti.

Berlusconi si è ribaltato da solo. E adesso bisogna evitare che trascini l’Italia nel pozzo. Siamo arrivati ad una stretta politica. E che cosa fa Berlusconi davanti alla stretta? Fa la vittima. E’ davvero incredibile. Ha avuto tutto in mano, ha fatto tutto quello che voleva. Maggioranza galattica, legge elettorale ad personam, il più grande partito d’Italia inventato sul predellino di una macchina. Ha fatto tutto lui e adesso parla di ribaltone? Lui si è ribaltato, si è ribaltato lui, lasciandoci il problema che adesso non si ribalti anche l’Italia e che la sua crisi e il suo fallimento non trascinino il Paese nel pozzo. Questo è il problema! E questo problema dovremmo risolverlo oggi con una nuova campagna elettorale?

Abbiamo i numeri per giocarcela. Ma è ora di avere senso di responsabilità e di pensare al Paese.Questa legge elettoraleva riformata.
Per sei mesi a discutere ancora, dopo sedici anni, su “Berlusconi sì / Berlusconi no” facendo fare all’Italia un altro giro su una giostra ormai fuori uso? E con una legge elettorale che pretende si governi un paese moderno nominando i parlamentari e prendendosi tutto, Presidenza della Repubblica compresa, con il 34% dei voti, che vinca l’uno o l’altro contro il 65% del Paese? Questo dovremmo fare? Non avremmo certo paura per noi, ce la potremmo giocare; e se capitasse mai sia chiaro che ce la giochiamo e che la vinciamo! Ma sarà pur ora di avere un po’ di senso di responsabilità e di pensare seriamente, veramente al nostro Paese e non alla propria bottega! Siamo davanti ad una emergenza economica e sociale che già c’è e che può essere aggravata da nuove tempeste, che bisogna assolutamente prevenire.

Da sei mesi viviamo nell’instabilità per colpa del governo. La stabilità può
venire solo da un governo serio di responsabilità istituzionale, con una una transizione ordinata, nuove regole elettorali, alcuni interventi essenziali e urgenti in campo economico e sociale.
Non ci si parli di instabilità, per favore! Questa è l’instabilità. Da sei mesi siamo nell’instabilità. Berlusconi è l’instabilità. E chi dovrebbe darcela adesso questa stabilità? Un voto in più comprato in Parlamento? Una bagarre elettorale fatta con la testa all’indietro e con esiti di governabilità assolutamente incerti? No. Oggi davanti all’Europa e alla società italiana la risposta di stabilità può solo venire da un governo serio di responsabilità istituzionale che garantisca una transizione ordinata, nuove regole elettorali, alcuni interventi essenziali e urgenti in campo economico e sociale e porti il Paese ad un confronto elettorale capace finalmente di rivolgersi al futuro perché fuori finalmente dalla situazione bloccata e impotente di questi anni.
Nel caso di apertura di una crisi questa è la proposta che avanzeremo al Capo dello Stato al quale confermiamo qui assoluto rispetto per le Sue prerogative e ammirazione e stima per come le sta esercitando. Siamo dunque pronti a prenderci oggi le nostre responsabilità, sia nel sostenere il Governo che chiediamo, sia nello svolgere da una posizione più avanzata e con maggior convinzione ancora la nostra battaglia di opposizione.


Non ci arrendiamo al declino dell’Italia.
Ma oggi, care democratiche e cari democratici, siamo soprattutto qui per dire a voce alta quale Italia vogliamo, qual è il nostro sogno e quali gambe vogliamo dargli perché possa davvero camminare. Vogliamo dire da qui che noi abbiamo un progetto di cambiamento. Non ci arrendiamo al declino dell’Italia. Non c’è nessuna ragione per arrendersi. Noi possiamo e dobbiamo avere il nostro posto nel mondo nuovo. Possiamo e dobbiamo preparare giorni migliori per la nuova generazione.


Alla base del nostro progetto vi sono convinzioni profonde, valori che possono
diventare fatti veri.
Alla base del nostro progetto ci sono convinzioni profonde, ci sono valori che possono diventare fatti veri e visibili. C’è l’idea che l’unità del Paese possa essere riconquistata e che Nord e Sud possano darsi la mano e fare la strada assieme. C’è l’idea che con più uguaglianza e più solidarietà possiamo avere più crescita e più lavoro.
C’è l’idea che con più conoscenza e con più innovazione possiamo aver e più crescita e più lavoro.
C’è l’idea che con più legalità, più sobrietà, più civismo possiamo avere più crescita e più lavoro.


Il grande sogno europeo deve riprendere il suo cammino.
Ancora una volta e con convinzione immutata noi partiamo dall’Europa. Ci ribelliamo all’idea che l’Italia possa acconciarsi a quest’Europa, che possa essere complice della disarticolazione e dell’indebolimento a cui la stanno portando i Governi europei della destra.
Il grande sogno europeo deve riprendere il suo cammino. L’Italia deve tornare protagonista di questo sogno cominciando concretamente da oggi e cioè da questa grande crisi. No. L’Europa non può ridursi a essere quella che mette la pezza il giorno dopo, non può ridursi ad essere quella che salva solo le banche o qualche Paese che si è indebitato per salvare le banche. No. Questo non basta. Bisogna metter e oggi, nella crisi, i pilastri dell’Europa di domani. Noi diciamo, assieme ai Partiti progressisti europei: il debito pubblico in più che si è prodotto in questi mesi in Europa lo si paghi con una tassa sulle transazioni finanziarie e non ricada invece quel debito, come sta avvenendo, sull’occupazione e sulle politiche sociali.

Quello che ha provocato la finanza lo paghi la finanza e non si carichi su chi non c’entra nulla, sulle nuove generazioniQuello che ha provocato a finanza lo paghi la finanza e non lo si scarichi per anni e anni su chi non c’entra nulla e sulle nuove generazioni. E ancora: l’Europa raccolga risorse con buoni europei per fare investimenti in infrastrutture e innovazione sostenendo la crescita e il lavoro e metta finalmente l’occupazione nei suoi riferimenti e non solo il debito e il deficit. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: non si può andare avanti avendo una moneta in comune mentre tutte le politiche restano divise. Si rischia davvero il disastro. Basta coi ripiegamenti difensivi e nazionalistici delle destre e dei populismi europei. “Ciascuno per sé” non ci si difende da nulla e non si va da nessuna parte. Vogliamo l’Europa di Jaques Delors, vogliamo l’Europa di Romano Prodi: quella è l’Europa che vogliamo.


Noi vogliamo un risveglio italiano.
In quell’Europa noi vogliamo una riscossa italiana, un risveglio italiano e per averli chiediamo che la testa si alzi finalmente all’altezza dei nostri problemi; sono problemi che oltrepassano Berlusconi, che oltrepassano un Governo e che riguardano il nostro sistema, che è malato nei suoi assetti democratici e malato nella sua incapacità a crescere. Il nostro progetto si misura dunque su due grandi sfide.


Due grandi sfide: una riforma repubblicana e un’alleanza per la crescita e il lavoro.
La prima: una Riforma Repubblicana per rafforzare la Costituzione più bella del mondo modernizzando Istituzioni e regole.
La seconda: Una alleanza per la crescita e il lavoro. Una riforma delle Istituzioni e delle regole, dunque, che parta da un principio di fondo. Come in tutte le democrazie che funzionano, una persona sola non risolve nulla. Pensare che senza la fatica delle riforme, che senza la fatica della partecipazione si possano risolvere le cose affidandosi a scorciatoie personalistiche è una illusione disastrosa.
Questo drammatico equivoco, nel nostro Paese, è andato oltre Berlusconi e si è diffuso in una mentalità. Quando dico: toccasse mai a me mai metterei il mio nome sul simbolo, intendo dire questo. Che noi non dobbiamo suscitare passione per una persona, ma per la nostra Repubblica. Se vogliamo salvarci dobbiamo riscoprire le radici della Repubblica, e darle modernità e una vitalità nuova.
Riforme dunque. Bisogna semplificare e rendere efficiente il Parlamento e la forma di Governo, ridurre il numero dei Parlamentari, fare una legge elettorale seria, fare un federalismo responsabile e congegnato per unire. Bisogna portare ogni costo della politica alla media europea, cancellare le leggi speciali e della cricca, semplificare le procedure ordinarie, mettere il cacciavite nel funzionamento di ogni settore della pubblica amministrazione a cominciare dalla giustizia per i cittadini e non per quella di uno solo. Definire le incompatibilità e i conflitti di interesse, cancellare e monopoli e posizioni dominanti a cominciare dall’informazione. Bisogna introdurre norme, a cominciare da quelle finanziarie, per snidare le illegalità e le mafie. Bisogna occuparsi dei diritti, dell’articolo 3 della nostra Costituzione, con leggi che sostengano la parità e riconoscano le differenze a cominciare dal ruolo delle donne nei ruoli di direzione, leggi che combattano l’omofobia, che garantiscano la dignità della persona nella malattia, che impediscano che il disordine dell??immigrazione ricada sulla parte più debole della nostra popolazione e che dicano finalmente a un bambino nato qui e figlio di immigrati: tu sei dei nostri, sei un italiano.


Il Paese che vogliamo è un Paese civile, pulito, orgoglioso di essere parte delle
grandi democrazie del mondo e di non rispecchiarsi con populismi e dittature. Questo è il Paese che vogliamo noi. Un Paese civile, pulito, un Paese orgoglioso di essere parte delle grandi democrazie del mondo e di non essere invece allo specchio dei populismi e delle dittature.


Un patto per la rinascita.
Un’alleanza per la crescita e per il lavoro; e cioè un patto fra Istituzioni, lavoro, impresa, soggetti della conoscenza e della sussidiarietà. In quel patto vogliamo ci sia una vera riforma fiscale. Basta con un Paese diventato ormai il paradiso dei condoni, un Paese dove il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza senza che gli si possa chiedere nulla, un Paese dove l’aliquota più bassa di un operaio, di un pensionato, di un artigiano è più alta di quella della rendita di uno speculatore. Basta. E’ tempo di alleggerire il carico sulla famiglia, sul lavoro e sull’impresa e di accrescerlo sull’evasione fiscale, sulla rendita finanziaria e immobiliare se vogliamo dare un po’ di spinta all’occupazione. In quel patto sociale deve starci un’idea di politica industriale, agricola e dei servizi: un orizzonte che ci chiarisca finalmente dove vogliamo andare, quale posto vogliamo che abbiano le nostre produzioni nel mondo e dove sospingere quindi investimenti pubblici e privati.

Nuovi parametri.
Qualità, tecnologie, ricerca, innalzamento dell’istruzione e della conoscenza, efficienza energetica, frontiera ambientale e dei beni culturali: questi dovrebbero essere i nuovi parametri. E in quel patto ci deve stare una ripresa delle liberalizzazioni. In quel patto ci deve stare una rilettura del nostro welfare a partire dal tema dei servizi e dalla condizione della famiglia piegata dalla caduta dei redditi, dalla non autosufficienza, dalla nuova disoccupazione giovanile e delle donne.
E il tutto secondo un principio che voglio ribadire qui: in quel patto noi vogliamo in economia un mercato più aperto, regolato, concorrenziale e svolto a parità di condizioni e vogliamo che i bisogni essenziali salute, istruzione, sicurezza non siano affidate al mercato.
Infine, ma non per ultimo, in quel patto, deve starci il grande tema del lavoro e delle relazioni sociali. Di fronte alla globalizzazione bisogna dare produttività, flessibilità ed efficienza alle nostre produzioni, ma dare tutto questo a fronte di un quadro di riforme che interessi tutta la società e all’interno di parole d’ordine nuove:
L’unità del mondo del lavoro. L’unità del lavoro per noi è un bene pubblico, è una condizione della crescita.
Regole chiare e nuove di rappresentanza, rappresentatività e partecipazione nel mondo del lavoro.
Più decentramento nei rapporti sociali si, più articolazione si, ma senza buttare a mare totalmente la dimensione nazionale dei contratti perché questo è un Paese già molto diviso e che bisogna tenere assieme.
Nuove norme in materia di lavoro. Per cominciare a parità di costo per l’impresa un’ora di lavoro precario non costi meno di un’ora di lavoro stabile e per chi non è coperto dalla contrattazione ci sia un salario minimo per legge.


Due priorità: le nuove generazioni e il divario nord-sud.
Tutto questo e molto altro ancora vogliamo sia attraversato da due priorità, da due punti di vista prevalenti: quello della nuova generazione e quello del divario fra nord e sud del Paese. Sono questi infatti i due grandi punti di rottura, le grandi questioni nazionali che possono sbarrare la strada alle prospettive del Paese.
Se vogliamo camminare come Paese, non possiamo spezzarci in due, né nelle generazioni, né nei territori. Su tutto quel che ho detto e su altro ancora stiamo lavorando anche nei dettagli, come si conviene ad un Partito di Governo che non parla mai a vuoto e che sa concretamente che cosa vuol dire quello che dice.

Noi l’Unione non la rifaremo. L’alleanza che vogliamo è con i cittadini.
Care democratiche, cari democratici, se i problemi sono questi, se la sfida è di questa portata allora c’è una conseguenza politica. Ci siamo impegnati a mobilitare una vasta area democratica e ad avanzare proposte politiche che possano rivolgersi a tutte le forze di opposizione, quelle di centrosinistra e quelle di centro, perché si prendano le loro responsabilità in un patto di governo e di riforme e perché non si sottraggano alla sfida per calcoli parziali o per pregiudizi che potrebbero portarci al risultato di rimanere nella palude di oggi. Un patto di governo e di riforme solido, serio e garantito, perché noi L’Unione non la rifaremo.
Se si parla dell’Italia e del suo futuro, si deve essere disposti a scelte coraggiose. Queste scelte toccano anche a noi al Partito Democratico senza il quale nessun cambiamento è possibile. Per noi questo non è solo un orgoglio: è una responsabilità.
Mentre dico questo, aggiungo anche che la nostra vera alleanza noi vogliamo farla con i cittadini e in particolare con la gente a cui vogliamo bene.
Noi vogliamo bene a quelli che il pane se lo sudano, ma che possono guardarsi tranquillamente allo specchio. Ai lavoratori che perdono o rischiano l’occupazione, alle famiglie inquiete per il futuro dei figli, ai precari, al pensionato che gira tre supermercati per trovare la merce che costa meno, agli insegnanti che non si arrendono, agli imprenditori che non mollano mai, agli operatori della legalità che resistono, agli amministratori perbene che si appassionano alla loro comunità, agli studenti che sanno studiare e che sanno farsi sentire, ai volontari che diffondono gratuità e solidarietà, agli immigrati che lavorano qui tirano la cinghia e mandano un po’ di soldi alla povertà delle loro famiglie. Noi ci rivolgiamo a questi e a tanta altra gente così perché solo a partire da loro e dalla loro condizione potremo fare un Paese migliore per tutti.

Dobbiamo fare in modo che la gente alla quale vogliamo bene voglia bene a noi e ci consideri alla testa di una risco ssa che li riguarda.
Ma detto questo sentiamo anche che il nostro compito è fare in modo che la gente a cui vogliamo bene voglia bene a noi e ci veda alla testa di una riscossa che li riguarda. Noi abbiamo tanto da fare ancora per rendere chiaro quello che vogliamo ma soprattutto per migliorare quello che siamo. Un collettivo che deve sapere quel che la gente chiede sopra ogni altra cosa ad una forza politica: sobrietà, onestà, rigore, semplicità, vicinanza ai problemi. Un collettivo che deve esprimere unità, responsabilità, generosità. E affidarsi, come stiamo via via facendo, a quella nuova generazione che prenderà in mano il partito dei riformisti del secolo nuovo.
Voglio rivolgere da qui un saluto particolare ai giovani e ai giovanissimi, e sono tanti, che quest’anno hanno preso responsabilità di direzione nei nostri circoli, nelle nostre federazioni e in tante pubbliche amministrazioni. Grazie del vostro impegno e grazie anche alla nostra organizzazione giovanile, ai giovani democratici.
Vi chiedo di resistere alle difficoltà, di metterci freschezza e coraggio e di avere fiducia nella buona politica. Un saluto particolare voglio rivolgerlo anche a tutti i nostri amministratori, con un abbraccio a quelli tra loro che sono sotto minaccia della criminalità e delle mafie.
Il Partito aiuti i nostri amministratori locali messi su un fronte difficilissimo dalle politiche dissennate del Governo, e i nostri amministratori ricordino che se rimane un solo euro in cassa lo si spende per un servizio ai disabili o per un soccorso alla povertà, perché la crisi può distruggere la solidarietà e senza solidarietà non può esserci comunità.







Vieni via con me.
Care democratiche e cari democratici, amici e compagni,
questa piazza emozionante dice al Paese che siamo forti, che siamo pronti a combattere per le cose in cui crediamo. Siamo pronti ad affrontare politicamente le scelte immediate, già dalla prossima settimana e siamo pronti a darci il passo per un cammino di cambiamento del Paese. Il cambiamento. E’ questo il messaggio forte che viene oggi da San Giovanni.
Anch’io ho il mio sogno. Il sogno di un Partito, il Partito Democratico, che possa finalmente dire all’Italia, parafrasando una bella canzone e una grande trasmissione televisiva: Vieni via, vieni via di qui, vieni via con me. Vieni via da questi anni, da queste umiliazioni, da questa indignazione, da questa tristezza. C’è del nuovo davanti, c’è un futuro da afferrare assieme, l’Italia e noi.