martedì 31 gennaio 2012

Il ventaglio di proposte del PD sulla riforma del mercato di lavoro:considerazioni













A proposito di riforme del mercato di lavoro e delle proposte del Pd o del centro-sinistra in genere.
La flexicurity proposta da Ichino prevede un contratto unico sempre a tempo indeterminato ma con la possibilità in ogni momento di licenziamento individuale per motivi economici,tecnici o organizzativi.Ora,al di la dell'indennizzo per i licenziati commisurato agli anni di lavoro,all'assegno di dis...occupazione,finanziato anche dalle aziende,pari al 90% il primo anno e all'80 e al 70% nei due anni successivi e della particolarità che le imprese si fanno carico anche della formazione e del collocamento dei licenziati,resta il fatto,e aggiungo io il neo, che viene meno la garanzia dell'articolo 18 per i nuovi assunti.Non condivido,pur non ritenendomi un integralista di questo importante strumento di garanzia per il lavoratore,la considerazione di Monti e le conseguenti interpretazioni sul non considerare un tabù l'approccio sull'articolo 18,e soprattutto non ammetto che il giuslavorista per eccellenza del Pd possa contemplare nella sua proposta il superamento di un qualcosa che certamente non può essere definito tabù.Il reintegro poi,previsto sempre nella bozza-Ichino,solo in caso di licenziamento di tipo discriminatorio lascerebbe,a mio dire,un elevato e arbitrario spazio di manovra al datore di lavoro.Non male invece i contratti a termine permessi solo oltre la soglia di reddito di 40 mila euro.
Anche la proposta Damiano,che prevede un contratto unico di inserimento formativo,una sorta di periodo di prova(massimo tre anni),più lungo quindi di quello attuale,in cui è possibile il licenziamento,lo trovo,per il lavoratore,specie per quello in prova,molto pericoloso,perchè solo dopo questo tempo si applicherebbero tutte le regole previste attualmente,compreso l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Trovo invece un tantino più moderna e di prospettiva la proposta Boeri-Garibaldi,con il contratto unico e a tempo indeterminato diviso in due distinte fasi,dove per i neo-assunti nei primi tre anni è possibile il licenziamento per giusta causa,anche economica,e non è previsto il reintegro,ma solo un indennizzo.Ci sono però tutele crescenti,tali da far ritenere, all'impresa,molto oneroso il licenziamento.Dopo i tre anni scatterebbe la fase di stabilità del contratto,e si applicherebbero le tutele previste dall'articolo 18.I contratti atipici diventerebbero contratto unico se il guadagno supera una certa quota,con l'esclusione di lavori stagionali e prestazioni professionali.
Insomma,mi pare che in questa partita così importante e determinante per il futuro del nostro Paese il Pd sia in campo con idee importanti e innovative, frutto delle tante competenze e intelligenze eccellenti di cui lo stesso dispone.

La fotografia dell'Italia in crisi.

Un'analisi lucida e drammatica della grave crisi di rappresentanza della politica italiana in un momento straordinariamente delicato per il nostro Paese.



Gli italiani di lotta e di governo
Ilvo Diamanti







VIVIAMO strani tempi. Come, d'altronde, il governo Monti (secondo la definizione dello stesso premier). Tempi instabili e sussultori. Una settimana dopo l'altra, un giorno dopo l'altro: protestano tutti. Tassisti e camionisti, avvocati e farmacisti, benzinai e giornalai, operai e notai. Protestano i Padani e i Forconi. Oltre ai No-Tav. Gli stessi "professori" - e gli studenti - non apprezzano il ridimensionamento dei titoli di studio - e delle lauree. Tutte, non solo quelle conseguite dagli "sfigati", per usare l'eufemismo del viceministro Martone 1.

Non sorprende, quindi, che la maggioranza degli italiani sia d'accordo con le manifestazioni e gli scioperi contro i provvedimenti del governo e le liberalizzazioni. Oltre il 56%, secondo il sondaggio condotto da Demos (per Unipolis) nei giorni scorsi.

LE TABELLE Il giudizio su governo e proteste 2

Tuttavia, solo una frazione della popolazione (circa il 5%) afferma di avervi partecipato, mentre si dice disposta a parteciparvi una componente, comunque, molto limitata (13%).

D'altra parte, in questo strano Paese, il governo ottiene un consenso largo quanto le proteste contro le sue politiche. Anzi, un po' più ampio, visto che quasi il 58% degli italiani (intervistati da Demos per Unipolis) giudica positivamente l'azione del governo Monti (con un voto da 6 a 10).

Non solo, ma le liberalizzazioni, nonostante le proteste, continuano ad essere apprezzate dalla maggioranza assoluta della popolazione (secondo l'IPSOS).

Le "ragioni" di atteggiamenti così contrastanti sono diverse ma, perlopiù, molto "ragionevoli".

1. La prima richiama la profonda diversità delle categorie coinvolte dai provvedimenti, che, non a caso, sono valutate in modo differente dai cittadini (come hanno segnalato i sondaggi IPSOS). L'indulgenza verso la protesta dei camionisti e dei tassisti, in particolare, risulta molto superiore rispetto a quella espressa verso i notai, gli avvocati e i farmacisti. Perché si tratta di figure sociali ritenute "popolari", che svolgono attività usuranti.

2. La seconda ragione è stata espressa, con chiarezza, dallo stesso Monti nei giorni scorsi, quando ha osservato che "per decenni si è coltivato e rispettato più l'interesse delle singole categorie che l'interesse generale". Anche se questo duplice sentimento attraversa tutti. Così, l'attenzione all'interesse generale ci fa apprezzare Monti e le politiche del governo, comprese le liberalizzazioni. Ma l'interesse di categoria ci spinge a reagire con insofferenza. Visto che tutti - o, almeno, molti - sono (siamo): tassisti, notai, avvocati, pensionati, avvocati, benzinai, commercianti, camionisti, professori, ecc. (Senza trascurare le differenze sociali, di reddito, posizione, fatica fra queste professioni.) Intendo dire che dentro di noi convivono e confliggono diversi interessi e diverse condizioni. Che dividono l'identità civica e quella di categoria.

3. Da ciò il dualismo di sentimenti che coabitano in noi. Da un lato, il consenso - di proporzioni larghe - verso Monti e verso il governo. Dall'altro, il peso, altrettanto esteso, del dissenso e delle proteste verso le politiche governative. Perché gran parte dei cittadini si rende conto che molte scelte di Monti sono obbligate e necessarie. Anche se criticabili e migliorabili. E gran parte dei cittadini, inoltre, teme la caduta del governo. Non solo per paura di "tornare indietro". Al passato politico che incombe, come una minaccia. Ma perché si rischierebbero la ripresa delle guerre politiche e del conflitto sociale. Tuttavia, ciò non impedisce agli specifici interessi e alle specifiche rivendicazioni - sociali, economiche e locali - di emergere ed esprimersi. In modo talora acceso.

4. C'è, infine, una ragione più generale. Meno evidente e meno evocata, nel dibattito pubblico. Ma forse la più pericolosa - a mio parere. Perché riguarda - e mette in discussione - la nostra stessa democrazia. Se oggi si assiste al proliferare di conflitti e di proteste puntiformi e senza soluzione è anche - soprattutto - perché tra la società, gli interessi e il governo - lo Stato - c'è il vuoto. Non c'è rappresentanza, ma neppure "composizione" e "aggregazione" delle domande e degli interessi. Un mestiere che spetta alle grandi organizzazioni economiche, ma, soprattutto e in primo luogo, ai partiti. I quali hanno "delegato" a Monti i compiti che essi non si sentono in grado di affrontare, anche - forse soprattutto - per timore delle conseguenze elettorali.

Un problema che lacera il centrodestra - particolarmente sensibile al richiamo degli interessi dei lavoratori autonomi e delle professioni. Ma che inquieta anche il centrosinistra, in difficoltà ad affrontare i temi della mobilità (del lavoro). Non è un caso che gli unici soggetti ad agire apertamente sulla scena politica, oggi, siano coloro che "moltiplicano" e amplificano le proteste di categoria, invece di ri-comporle. La Lega, in primo luogo. Ma anche l'IdV e Sel, per quanto in modo reticente.

Ne esce il quadro - in frantumi - di una "democrazia immediata" (per riprendere la definizione del marchese di Condorcet, nella Francia rivoluzionaria del Settecento). In duplice senso.

A) Perché ogni domanda e ogni spinta sociale si rovescia "immediatamente" sulla scena pubblica. Visto che non solo i media tradizionali (per prima la Tv), ma Internet, i cellulari e i palmari, FB e Twitter danno visibilità e rilevanza "immediata" a ogni rivendicazione e a ogni protesta. Mentre ogni rivendicazione e ogni protesta può, comunque, produrre conseguenze pesanti a livello pubblico e sociale, quando sia in grado di interrompere la comunicazione e la mobilità - strade, autostrade, città, aerei, ferrovie.

B) Ma questa democrazia appare, d'altronde, im-mediata, in quanto priva di "mediazioni" e di "mediazione". Per il deficit di rappresentanza politica espresso dai partiti. Per la tendenza e la tentazione di affidare l'unica forma di mediazione ai "media".

Questa democrazia im-mediata e iper-mediata (dai media), al tempo stesso, può, forse, piacere a coloro che celebrano l'antipolitica e auspicano la morte della politica, dei politici e dei partiti. Ma rischia di compromettere le sorti della democrazia rappresentativa.

venerdì 27 gennaio 2012

‎27 Gennaio, Giorno della Memoria













Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
... il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi

mercoledì 25 gennaio 2012

La crisi italiana al tempo del governo tecnico













Che contrasto stridente ieri sera a Ballaro':in studio Corrado Passera,banchiere e super-ministro di questo governo dei cosiddetti tecnici(?),icona dei poteri forti e della grande e ostentata ricchezza italiana;in quasi tutti i servizi proposti,invece,la rappresentazione plastica di un Paese alla fame che certamente questo esecutivo non fara' riemergere.Meditiamo davvero e smettiamola di autogratificarci(lo dico soprattutto agli amici con i quali condivido l'esperienza di militanza all'interno del PD)supportando,tra l'altro,anche questa cosa allucinante di un documento comune con Pdl e Terzo Polo a sostegno del governo e dell'Europa!

Eccellente rappresentazione dei paradossi italiani



I padroncini della mobilità



ILVO DIAMANTI



E' inquietante, ma anche significativa, la condizione di questo Paese, in questo momento. Paralizzato, letteralmente. Città e autostrade, inagibili. Bloccate dalla protesta dei tassisti e dei camionisti. È significativa del paradosso in cui viviamo. Noi, cittadini globali di un mondo globalizzato, dove le distanze spazio temporali sono vanificate, perché avvengono per via "immateriale". Attraverso la Rete, la comunicazione internautica, satellitare, digitale.

Mentre il movimento delle persone - da casa al lavoro, scuola, alla palestra, al cinema (e viceversa) - avviene su strade, autostrade, rotaie: vie assolutamente "materiali". Che è facile bloccare, interrompere, ostruire. Con conseguenze devastanti in un Paese, l'Italia, divenuto ormai una grande unica conurbazione. Una grande azienda diffusa, sparsa in larghe aree del Centro e del Nord. Ma anche nel Sud. Un Paese difficile da attraversare, perché occupato, per larghi tratti, da catene montuose. E perché le politiche, almeno fino agli anni Settanta, hanno badato agli interessi dell'industria dell'auto e del trasporto privato assai più che a quelli pubblici. Per questo oggi è divenuta strategica la questione della "mobilità" (come ha osservato, già alcuni giorni fa, Gigi Riva sul "Piccolo"). O, forse dell'im-mobilità. Per questo è difficile capire e adattarsi, molto più di ieri. Perché, nel frattempo, ci siamo abituati a vivere e convivere
con le tecnologie della comunicazione.

Per primi i giovani e le persone più istruite. Ma, progressivamente e rapidamente, anche gli altri. Perché tutti ormai hanno e usano un cellulare, mentre gran parte della popolazione ha un computer e comunica in rete. E molti, moltissimi, vivono in simbiosi con l'iPhone e l'iPad. Stanno in contatto fra loro attraverso i Social Network, esternano il loro pensiero mediante Twitter. Le aziende operano in rete. Così gli enti pubblici, le scuole. Produttori e clienti, professori, studenti e famiglie. In rete. Tutti in movimento, pur restando fermi. E tutti in relazione, pur restando soli. Per questo la protesta dei tassisti e degli autotrasportatori ci ha colti impreparati. Perché, appunto, non ce l'aspettavamo. Di essere vincolati in modo così stretto dalla nostra dimensione fisica. Materiale. Dalle autostrade piuttosto che dalle infostrade. Dalle vie urbane piuttosto che da quelle digitali. Dai tassisti invece che dagli hacker. Non ce l'aspettavamo di venir bloccati a casa o per strada e di scoprirci fermi. Noi che ci immaginiamo sempre in viaggio e sempre insieme agli altri.

È, dunque, un problema di dissonanza cognitiva a rendere difficile comprendere e accettare quel che avviene in questi giorni. Prima ancora di affrontarlo. Al contrario di coloro che ci "bloccano". Tassisti, camionisti, autotrasportatori. Ben consapevoli della nostra "dipendenza" dalle loro azioni e coazioni. Perché controllano il movimento "fisico" personale. E l'economia nazionale. Per loro, il numero non è un vincolo. Non sono "masse" ma le loro lotte hanno effetti di massa. Ventimila tassisti possono bloccare le città. Gli autotrasportatori sono molti di più, visto che in Italia operano circa 90.000 imprese (dati Eurostat), ciascuna con circa 5 veicoli. Facile per loro bloccare l'intero Paese. Non solo gli spostamenti delle persone. Ma - anche e anzitutto - quelli delle merci, che essi stessi (auto) trasportano. Peraltro, si tratta di un modello di lotta sperimentato, adottato, in passato, da altre categorie, anch'esse addette - non a caso - alla "mobilità". Il personale delle ferrovie e dei trasporti urbani. I controllori di volo. In grado di bloccare - in poche decine - l'intero traffico aereo non solo di un Paese. E, ancora, i benzinai. "Padroni" del carburante da cui dipende la nostra mobilità personale.

Si tratta, in gran parte dei casi, di figure professionali che non temono di intraprendere forme di lotta aspre e impopolari. Abituati, come sono, a un lavoro duro e usurante. Loro sì, sempre in viaggio, sulla strada. "Da soli". Sempre in viaggio, sempre in movimento, sempre in rete. Da sempre (i camionisti, prima e più degli altri, hanno costruito una costellazione di CB). Sempre in contatto tra loro. Per esigenze di lavoro, ma anche per combattere la solitudine. Difficile coltivare legami di solidarietà con gli altri in questa condizione nomade. Anche se è loro chiaro quanto gli altri, la comunità, i cittadini dipendano da loro. Dal loro lavoro, dai loro servizi. Essi, d'altronde, hanno sperimentato la loro capacità di pressione da molto tempo e in molti contesti. Per non allontanarci troppo: in Francia, in Spagna e in Grecia. In Italia, però, c'è la complicazione di una rappresentanza frammentata in nove associazioni, quando negli altri Paesi ce ne sono al massimo due. In queste condizioni, il senso di responsabilità sociale e civile, la gravità del momento economico e politico non costituiscono argomenti particolarmente sentiti. Al contrario, il disagio sociale diventa un elemento di pressione politica particolarmente incisivo. In grado di influenzare pesantemente il clima d'opinione e il consenso. E nell'era dell'opinione pubblica, le lotte più efficaci sono quelle che colpiscono non tanto gli imprenditori e i produttori, ma i cittadini e i consumatori. I quali diventano vittime e ostaggi di ogni protesta.

Le liberalizzazioni, peraltro, sono difficili da realizzare e da attuare, da noi più che altrove. Perché cozzano contro una società stratificata e frammentata in un collage di appartenenze professionali e di mestiere, albi, ordini, gruppi, associazioni di categoria. Le liberalizzazioni, cioè, pretendono di slegare i legami di una società legata insieme da mille interessi: i familismi, i localismi, i particolarismi, le eredità. Dove molte persone - oltre e prima che "cittadini" - si sentono tassisti, farmacisti, camionisti, giornalisti, avvocati, notai, benzinai, politici, artigiani, banchieri, dirigenti, commercianti, commercialisti, consulenti, cambisti... Titolari di interessi di entità molto diversa. Più o meno piccoli, più o meno grandi. A cui, però, non intendono rinunciare.

È difficile immaginare che un cambiamento tanto profondo possa avvenire senza "spargimento di sangue". (Parlo, ovviamente, in modo figurato e metaforico.) E a chi ritenga necessario "slegare" l'Italia - per rendere la società più equa e l'economia più aperta - la protesta dei Tir e dei tassisti è lì a rammentare che la lotta sarà lunga e dura. Prepariamoci. Ce n'est qu'un début...

lunedì 23 gennaio 2012

Riflessioni sulla Giornata della Memoria per non dimenticare













La Shoah è l’orrore di un regime ateo costruito sull’odio e sulla violenza. È impossibile negare l’uccisione d milioni di Ebrei!


Questo, in estrema sintesi, uno dei passaggi chiave del discorso di Benedetto XVI, tenuto all’aeroporto di Tel Aviv a conclusione del suo viaggio in Terra Santa.


È proprio in questo pellegrinaggio, infatti, che il papa ha voluto ribadire la sua netta contrarietà al negazionismo della Shoah, sostenuto da alcuni vescovi lefebvriani, da poco rientrati nella Chiesa Cattolica. Ma come è possibile negare nel XXI secolo gli orrori di un massacro che ha sconvolto la storia europea nella prima metà del Novecento? Come è possibile negare l’esistenza delle camere a gas, l’esistenza di Auschwitz, Bergen Belsen e di altri campi di concentramento?


La maggior parte delle nostre coscienze risponderebbe che è inconcepibile non accettare una realtà documentata da terribili immagini, da lettere, diari e testimonianze orali piene d’angoscia e dolore.


Quando parliamo dell’Olocausto ci riferiamo a quel tragico capitolo della storia segnato dalla dittatura nazista in Germania (1933-1945) e dal dilagare in Europa dei totalitarismi negli anni Trenta del Novecento. Ma da dove sorge e perché questo odio nei confronti del popolo ebraico?


Per ricercare una risposta a queste domande dobbiamo tornare indietro nel tempo, alle origini degli Ebrei. Osservando la storia del popolo ebraico ci accorgiamo come gli Ebrei sono sempre stati vittime di persecuzioni: durante il periodo della schiavitù in Egitto, a Babilonia e, infine, in Palestina, durante il dominio romano.




Anche nel Medioevo il popolo d’Israele è stato vittima di uccisioni e rappresaglie: nel Trecento, con il dilagare della peste in Europa, gli europei attribuirono la causa del contagio agli infedeli, cioè alle persone di un’altra fede religiosa. Gli Ebrei erano le vittime principali di queste accuse anche perché detenevano le maggiori attività di credito nel continente europeo.




La causa economica delle persecuzioni, in un certo senso, la possiamo riportare nel contesto della Germania nazista del 1933: in seguito alla crisi economica del 1929, la Germania aveva perso i crediti degli Americani, e quindi l’economia tedesca, sostenuta dagli aiuti economici degli USA, era sull’orlo del baratro. Hitler credeva che l’unico modo possibile per sostenere l’economia del paese fosse quello di privare gli Ebrei delle loro ingenti ricchezze, accumulate mediante crediti bancari e proprietà private.




Attraverso l’ideologia della purificazione della razza tedesca, basata sul superuomo di Nietzseche, sulla lettura errata dell’ideologia politica di Fichte, sulla teoria evoluzionista di Darwin, il messo infernale tedesco avviò le persecuzioni razziali e impose la restrizione delle libertà civili al popolo ebreo. Tappe memorabili furono le leggi di Norimberga del 1935 e la Notte dei cristalli nel novembre del 1938.



Gli ebrei, contrassegnati dalla Stella di David, venivano catturati per crimini completamente falsi dalle S.S. e deportati nei campi di concentramento. Dobbiamo tuttavia sottolineare la differenza tra il campo di concentramento e il campo di sterminio.




Nel campo di concentramento i prigionieri lavoravano, sostenendo la produzione industriale dei regimi sotto la minaccia di violenze e percosse. I primi campi di concentramento sorsero in Germania (1933), in Russia e, successivamente, anche in Italia con l’approvazione delle leggi razziali (1938). Il campo di sterminio è, invece, il luogo dove i prigionieri venivano immediatamente uccisi con varie torture (camere a gas, forni crematori,…). I campi di sterminio iniziarono ad apparire nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando Hitler annunciò la soluzione totale, cioè la completa eliminazione del popolo ebraico.




La liberazione degli Ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento aprì gli occhi del mondo su come la ragione umana, dominata dall’odio, dalla volontà di potere e dalla violenza, potesse degenerare causando eventi drammatici. È proprio per questo che nasce l’ONU. A conclusione della Seconda Guerra Mondiale l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) aveva e ha ancora oggi il compito principale di evitare che orrori come quello dell’Olocausto si possano ripetere nella storia dell’umanità.


Tutti noi abbiamo avuto modo di leggere romanzi e vedere film che trattano di questo argomento,il Diario di Anna Frank, Anni d’infanzia e il film Il pianista di Roman Polański. Alcune immagini tratte da queste opere della letteratura e del cinema mi tornano ancora oggi in mente: bambini uccisi davanti alle loro madri, anziani gettati dai balconi, ragazzi adolescenti trucidati,…. Pensando a questi capolavori mi domando: che cosa avrei fatto


Non saprei dire nulla. So solo che se avessi dovuto difendere la mia famiglia, i miei amici o le mie idee, io li avrei difesi, anche a costo della mia stessa vita. Oggi il mondo intero ha un importante compito: quello di impegnarsi affinché gli errori del passato non si verifichino più e possano essere sopraffatti da una delle più grandi leggi d’amore:

Amerai il prossimo tuo come te stesso!

Infine vorrei concludere la mia riflessione citando le gesta di due pontefici del nostro secolo: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Giovanni Paolo II pronunciò un mea culpa durante il Giubileo del 2000 contro il silenzio della Chiesa di fronte alla tragedia dell’Olocausto. Un secondo gesto significativo del papa polacco fu anche quello di inserire nel Muro del Pianto di Gerusalemme, in occasione del suo pellegrinaggio giubilare in Terra Santa, una preghiera di perdono al Dio di Israele per i crimini commessi dai Cristiani nell’ultimo secolo.


Significativo è stato anche il viaggio in Israele di papa Ratzinger. Joseph Ratzinger è infatti il primo papa tedesco dopo il Cinquecento, testimone degli orrori della dittatura hitleriana, a compiere un viaggio in Israele.



Nel suo pellegrinaggio, nel suo sostare in preghiera allo Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto in Terra Santa, e al Muro del Pianto, Benedetto XVI ha chiesto perdono al popolo ebraico non solo come papa, ma soprattutto come tedesco, per la folle tragedia compiuta da Nazismo.




Si è trattato di un gesto significativo, che ha risanato le divisioni tra il popolo israeliano e quello tedesco.


Concludo citando in breve due preghiere di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI:

Mai più la guerra, avventura senza ritorno, spirale di lutto e di violenze! Shalom, pace tra tutti i popoli del mondo!

mercoledì 18 gennaio 2012

Naufragio della "Concordia"parodia italiana










L'unico eroe


di Massimo Gramellini



Un capro espiatorio per sfogare la rabbia, un eroe senza macchia per placarla. E’ la formula un po’ stucchevole delle storie italiane al tempo della crisi. Anche nel dramma del Giglio la realtà è stata immediatamente diluita in un fumetto.

Servivano un’immagine evocativa (la nave sdraiata su un fianco, simbolo del Paese alla deriva) e uno Schettino che riempisse il vuoto lasciato da Berlusconi alla casella Figuracce & Bugie e assommasse su di sé l’orrore del mondo (ieri il Tg5 ha definito i suoi tratti fisici «lombrosiani» e il Tg3 lo mostrava in smoking come il comandante di «Love Boat» per suggerire maliziosamente la sua inconsistenza morale, quando TUTTI i comandanti di una crociera indossano lo smoking, nelle serate di gala). Mancava ancora il buono, che nella trama assolve al compito cruciale di riscattare l’onore ferito della collettività, fortificandola nell’illusione di essere migliore di quanto non sia. Adesso anche il buono c’è.

Ovviamente facciamo tutti il tifo per De Falco, il capo assertivo della Capitaneria di Livorno che nella ormai celebre telefonata ordina al comandante Schettino, già inscialuppatosi verso la riva, di tornare sulla nave e comportarsi da uomo. (Ordine vano, peraltro, come quasi tutti gli ordini dati in Italia, perché Schettino gli dice di sì e poi continua a scappare).

Eviterei però il gioco insistito dei paragoni: l’eroe contrapposto al vigliacco, l’italiano buono all’italiano cattivo, fino all’urlo autoassolutorio che ho letto su un blog: «Io sono De Falco». Anch’io. Anche Schettino, credetemi, se fosse stato sulla poltrona di De Falco sarebbe stato De Falco e avrebbe dato ordini perentori al se stesso vigliacco che tremava in mezzo al mare per la paura di morire.

Non voglio togliere meriti al valido ufficiale della Capitaneria, ma contesto l’abuso del termine «eroe», che in un’epoca che ha smarrito il significato delle parole viene appuntata sul petto di chiunque fa semplicemente il proprio dovere: rifiutando una mazzetta se è un funzionario pubblico, denunciando un giro di scommesse se è un calciatore, assumendosi le proprie responsabilità se esercita un ruolo di responsabilità. Dall’Iliade a Harry Potter, l’eroe è colui - soltanto colui - che mette a repentaglio la propria vita. E non perché la disprezza (quello è il fanatico), ma perché è disposto a sacrificarla in nome di un valore più elevato: l’amore (a-mor, oltre la morte).

Non escludo che l’ottimo De Falco sarebbe stato un eroe: il destino non gli ha consentito di mettersi alla prova. Dubito che lo sarei stato io e tanti altri che disputano sulla viltà di Schettino. Per me nella storiaccia del Giglio esistono persone inadeguate e altre adeguate, ma un unico vero eroe. Il commissario di bordo che con la gamba spezzata ha continuato a salvare le vite degli altri.

martedì 10 gennaio 2012

Basta!












Allora,questo incredibile,inverosimile e,di questi tempi,anche obsoleto rapporto conflittuale(è un eufemismo?!)tra maggioranza e minoranza all'interno del PD sardo deve finire,subito!
Evidentemente io non ho,ahimè,alcun potere e alcun ruolo per cercare,velleitariamente,di contribuire a dirimere questa insopportabile situazione.Tuttavia,da semplice iscritto e semplicissimo dirigente del partito debbo dire,con molta determinazione e profonda amarezza,che così non si può andare avanti.Io,francamente,non so se sono in maggioranza o in minoranza nel partito,mi sento piuttosto un democratico a tutto tondo,che vorrebbe un PD assolutamente concentrato e proiettato esclusivamente a costruire una piattaforma programmatica concreta,seria e credibile,in perfetta sintonia con le istanze e le preoccupazioni che provengono dalla gente di Sardegna oramai esausta e sempre più delusa da questa inconcludente giunta Cappellacci, nient'altro.
Ieri si parlava del doppio,contestuale confronto,e a breve distanza,tra giovani su come si vorrebbe il PD,e a proposito, pur rendendomi perfettamente conto che è una cosa molto antipatica e che certamente non contribuisce alla causa comune della pacificazione,debbo dire che i 250 giovani riuniti a Macomer per una tappa della conferenza programmatica,che io condivido e sostengo totalmente,mi hanno entusiasmato di più rispetto agli 80 riuniti a Nuoro.Ma non è questo il problema,non può essere questo,non si può semplificare e distorcere tutto con una guerra di numeri.Oggi si parla di conflitto per il tesseramento online,di carte di credito con cui acquistare le tessere.Oh,Dio mio,ma come si può,mentre come titolo centrale dei giornali locali troviamo la nuova drammatica notizia della chiusura dell'Alcoa,con altri 1000 lavoratori che perdono il posto di lavoro e che non dispongono di alcuna carta di credito!
Davvero,non se ne può più,fermiamoci prima che sia definitivamente troppo tardi,o forse è già troppo tardi!

lunedì 2 gennaio 2012

Lavoro,un'analisi lucida della situazione italiana
















Nel Paese sul lastrico a chi interessa cambiare l'articolo 18?


Da "Contromano"
di Curzio Maltese



Il fallimento totale del comunismo ha cancellato per vent'anni dal dibattito pubblico il problema dello sfruttamento del lavoro.Ma il problema è rimasto,anzi si è allargato a dismisura,ed è all'origine della crisi economica.
Negli ultimi due decenni,i salari sono crollati in quasi tutto l'Occidente e le condizioni di vita e di lavoro sono peggiorate ovunque,soprattutto per le giovani generazioni.Le nuove multinazionali,anche quelle che puntano molto su un'immagine moderna,civile e progressista,trattano i propri lavoratori peggio di quanto non facessero gli odiati padroni d'una volta.Amazon è finita nel mirino dei media americani per le disumane condizioni di lavoro cui costringe i dipendenti,Apple è sotto inchiesta per l'ondata di suicidi fra gli operai cinesi chiamati a produrre gli iPad,altri colossi come Monsanto,Nike e Nestlè devono difendersi da accuse di sfruttamento selvaggio della manodopera,in qualche caso perfino di bambini.
Da vent'anni i super manager più celebrati e citati come modello di genio aziendale non sono più i creativi ma quelli bravi ad aumentare il proprio stipendio e a tagliare quelli dei lavoratori,insieme ai diritti acquisiti.Il caso più noto è Sergio Marchionne.Si capisce che tagliare la pausa mensa è più semplice che progettare un modello diverso dalla ventesima versione della Panda.Marchionne spiega che la produttività italiana è troppo bassa ed è vero.Ma sfugge,almeno ai non addetti,il meccanismo psicologico per il quale un lavoratore dovrebbe produrre di più in cambio di un salario sempre più misero.In Italia,lo stipendio medio netto è crollato negli ultimi dieci anni agli ultimi posti dell'Eurozona,sotto i ventimila euro all'anno.In termini di potere d'acquisto reale,i lavoratori italiani guadagnano cinquemila euro in meno rispetto al 2001.La ragione principale è che sono aumentate le tasse sul lavoro dipendente,fino a superare di gran lunga la media europea,quella dell'Ocse e perfino la leggendaria Scandinavia.
L'aumento delle tasse sul lavoro dipendente,ricompensato con un netto peggioramento dei servizi sociali,è servito in buona sostanza a finanziare l'evasione fiscale,nel frattempo triplicata.Si sono insomma tartassati i poveri per arricchire i ricchi disonesti.
L'effetto sull'economia è stato devastante.L'Italia è un Paese dove si vendono sempre più pellice,champagne di marca,fuoribordo ed elicotteri,ma dove si spende sempre di meno al supermercato.Com'è noto,lo spreco dei super ricchi non compensa la mancata spesa dei poveri.E ora,vogliamo davvero credere che il problema sia l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori?