martedì 31 agosto 2010

Le Regioni e un paese ancora tutto da legare.


di Aldo Bonomi

Di solito non amo le classifiche, segno dei tempi competitivi in cui siamo immersi. Amo di più i tempi lenti del racconto sociale ed economico che danno anche agli ultimi il modo di spiegare e di cercar di capire. Vista la classifica pubblicata oggi, Sardegna se ci sei batti un colpo. Ho empatia per quelli che stanno in fondo, spesso gli indicatori statistici non colgono tutti i movimenti del profondo nelle dinamiche dell’economia, penso al sommerso che può essere stimato ma mai censito, e al sociale che spesso è più racconto che statistiche. Perplessità non solo mie, visto il dibattito ospitato dal Sole 24 Ore sulla validità o meno del Pil come indicatore unico dello stato di salute dell’economia di un paese. O quello, ben più pregnante nella crisi, riguardante il debito pubblico e il risparmio e il debito privato. Se tenuti separati nella classifica fanno dell’Italia un paese messo malissimo. Se messi nella stessa classifica ci fanno dire «io speriamo che me la cavo».

Molta di questa speranza, in tempi di federalismo da legiferare, da applicare, da realizzare, sta nella capacità delle regioni di accompagnare le performance economiche, la qualità del credito e del risparmio, il mercato del lavoro e anche valenze di qualità della vita come demografia, famiglia, istruzione, salute e ambiente. Sono tutti indicatori applicati allo stato di salute delle regioni.
Un buon mix tra dati freddi della scienza triste e dati caldi del sociale. Per la competitività, e nella gara tra regioni i risultati sono calcolati sugli ultimi dieci anni assegnando punti in più o in meno a seconda che il sistema regionale studiato sia andato avanti o regredito.
Rimane mi pare la questione centrale, il dato politico-istituzionale. Mai come ora, basta ricordare l’aspro dibattito tra la conferenza delle regioni e il governo a proposito della finanziaria, che tocca molti degli indicatori di questa classifica, per capire che le regioni sono al centro della scena. Quindi una classifica giustamente gli tocca.

Sono lontani i tempi – era l’altro secolo -, quando il regionalismo era figlio di un dio minore nel patto non scritto secondo cui ai grandi partiti nazionali, allo stato centrale, toccava la primazia dei rapporti con i grandi gruppi pubblici (Iri) e privati, la proprietà delle banche di interesse nazionale e alle regioni si lasciava il rapporto con le economie locali, le banche popolari e cooperative, gli artigiani e i commercianti. Meglio così. Senza quel patto non scritto probabilmente non sarebbe cresciuta la terza Italia delle piccole e medie imprese dei distretti.La situazione è totalmente mutata. Alle regioni in questi ultimi dieci anni, e ancor di più in quelli che verranno, sono delegate funzioni strategiche per l’economia, per il welfare, per la gestione del territorio. Il filmato delle regioni del nuovo secolo ci conferma un dato a tutti noto, alla base dell’aspro dibattito sul federalismo fiscale tra nord e sud. Ai primi posti – se si toglie la medaglia d’oro del Lazio, merito di una forte risalita – stanno le regioni del nord-est, il Lombardo-Veneto più l’Emilia Romagna e le virtuose Marche della “città adriatica” in evoluzione. In fondo Sardegna, Calabria, Sicilia e colpisce il dato della Puglia, che credevo più virtuosamente agganciata al modello della “città adriatica”. Come meraviglia quello dell’Umbria, che si discosta di poco dagli ultimi.

Guardando fotogramma per fotogramma la corsa delle regioni con le nuove funzioni del decreto Bassanini, che le toglieva dal cono d’ombra del federalismo non scritto, si capisce chi ha ben operato accompagnando i mutamenti dell’economia, con il paese che entrava nella globalizzazione, la crisi del welfare, con i costi della sanità, e le nuove tematiche della tutela dell’ambiente.
Emergono tre blocchi territoriali che non sempre corrispondono alla tradizionale ripartizione del sistema paese in nord, centro e sud. Nel blocco dei primi sono la Lombardia e il Veneto con il Trentino Alto Adige e l’Emilia Romagna. Territori dove si è consolidato il modello delle medie imprese leader che le regioni hanno cercato di accompagnare con servizi adeguati, dove si è giocata la sfida del mutamento della composizione sociale, leggasi immigrazione e noi che diventiamo sempre più vecchi. Con loro c’è anche il Lazio che non fa meraviglia. Roma non è più solo una città burocratica, ma città-regione di un sistema produttivo in mutamento. Se non avesse il buco nero della sanità, che la dice lunga su come la macchina pubblica stenta a cogliere i mutamenti, sarebbe andata ancor meglio. Così come non fa meraviglia il posizionarsi tra i primi del capitalismo dolce delle Marche, che la Regione ha saputo accompagnare.

In mezzo ci sono le regioni che con difficoltà si sono agganciate a questi modelli. Il Friuli del nord est, la Toscana, meno veloce delle Marche, e il Piemonte con tutto il peso della transizione della Torino one company town verso una regione che guarda a Milano, all’Europa e a Detroit. Si sono aggrappati a questa mediocrità operosa pezzi di territori che una volta erano sud da intervento straordinario come l’Abruzzo, il Molise, la Basilicata e persino la Campania, che non ha goduto ultimamente di buona stampa.
Poi il sud. Con Sicilia e Puglia, la Calabria, vera emergenza nazionale, e ultima la Sardegna. Al di là dei fotogrammi di oggi, a proposito di Puglia, Sicilia e Sardegna penso che possano ben risalire nei prossimi anni. Sono tre piattaforme territoriali incuneate nel mediterraneo che verrà, con risorse umane, ambientali e di impresa degne di miglior classifica. In grado di competere con le prime che guardano a nord dentro l’Europa. Anche questi fotogrammi regionali ci dicono che l’eterna nostra questione-paese è sempre la stessa: tenere assieme due paesi che stanno in uno. Forse le regioni possono riuscire in ciò che 150 anni di storia nazionale non hanno ancora risolto. Le classifiche servono anche a questo. A sognare.

Scalfari a Soru:scendi di nuovo in campo per il bene di quest'isola.


di Serena Lullia.

La terza investitura di Renato Soru a guida della Sardegna arriva dal fondatore del quotidiano “La Repubblica”, Eugenio Scalfari. E’ lui che al convegno di Sinistra Democratica chiede all’ex governatore di scendere di nuovo in campo per dare un futuro all’isola.
Una richiesta che arriva dopo l’annuncio dello stesso Soru di voler mettere in stand by il suo ruolo di leader del centrosinistra sardo in attesa della fine del processo Saatchi & Saatchi. «Non può aspettare i tempi del processo – ha detto Scalfari alla fine del convegno sul piano paesaggistico -. Lei è un uomo del Pd. Il partito e la Sardegna hanno bisogno di lei». Parole che infiammano il pubblico del cineteatro. Una lunga maratona di interventi che ruotano attorno al Ppr, a sei anni di distanza dal debutto.
Il dibattito, coordinato da Augusto Ditel, segna il trionfo dell’urbanistica verde, della difesa dell’ambiente dal grigio cemento. A osservare questa mobilitazione anti-mattone selvaggio, questo esercito di cittadini e amministratori per nulla affascinati dal cemento, ci sono i due orgogliosi padri del Ppr, Renato Soru e Gian Valerio Sanna. In platea un osservatore di eccezione, Eugenio Scalfari.
Nell’evento dell’estate gallurese più riuscito per il centrosinistra, il Ppr viene rilanciato come l’unico strumento urbanistico illuminato per dare un futuro di ricchezza alla Sardegna. Una tesi sostenuta da tutti i sindaci dei comuni rossi, da Orosei alla Maddalena a Bortigiadas fino a Santa Teresa.

A infiammare la platea sono le parole dell’ex assessore Gian Valerio Sanna: «Col Ppr abbiamo cercato di impedire che il territorio dei sardi fosse subordinato agli interessi privati dei soliti pochi pronti ad arricchirsi. Abbiamo detto basta al baratto di aree del Puc per i consensi elettorali. La giunta Cappellacci in 17 mesi ha cercato di tagliare le gambe di quella nostra visione basata sui valori della cultura, dell’ambiente e dell’identità. Con il piano casa, fondato su una idea liberticida dettata da Roma». Il gran finale è per Soru. L’ex governatore ripercorre la genesi e la storia del piano paesaggistico, ne ricorda la filosofia tra gli applausi: «Sei anni fa decidemmo di ripristinare le regole. Per impedire che un vuoto normativo consegnasse la Sardegna agli speculatori. Abbiamo scelto di lasciare intonsa quella parte di territorio ancora vergine. Un dovere verso le nuove generazioni per garantire ai sardi di vivere bene. Non il blocco dell’edilizia, ma la riqualificazione dell’esistente. Perchè il valore di un terreno non è dato dai metri cubi che si possono costruire. Ma dalla sua storia e dalla sua identità

giovedì 26 agosto 2010

Da "Spinoza", un blog serissimo.

La rivoluzione bussa

Lettera di Veltroni al Corriere. In pratica anonima.

Veltroni manda una lettera al paese. Il paese ricambia, ma senza lettera.

Il testo dell’ex segretario analizza la situazione politica. La prende un po’ alla lontana: “Chiamatemi Ismaele”.

Veltroni: “Corriamo il rischio che questa monarchia livida sia sostituita da una pura difesa dell’esistente”. Quale delle due è il Pd?

Veltroni dice cosa farebbe se avesse vinto le elezioni due anni fa. Particolarmente toccante il passaggio su mio nonno e il flipper.

“Quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome”. Già, buffo no?

La lettera è stata pubblicata incompleta: manca la parte in cui gli sta bene anche il contrario.

Intanto il Pd lancia una mobilitazione porta a porta. Poi il partito si spacca sulle mozioni “bussare” e “campanello”.

Bersani: “Faremo il più grosso porta a porta della storia”. Aspira ai più grossi vaffanculo.

Quelli del Pd gireranno casa per casa per convincere la gente. E per abituarsi al loro prossimo lavoro.

L’obiettivo è informare i cittadini sui danni causati dal governo Berlusconi. Per esempio il fatto che per informarli bisogna andare di casa in casa.

(Stavolta non servirà rispondere “Non voglio niente”: è proprio quello che loro hanno da offrire)

“Casini? È uno stronzo”. No, purtroppo non l’ha detto Bersani.

Bossi ha dato dello stronzo a Casini. Anche un orologio rotto due volte al giorno dà l’ora esatta.

La replica di Casini: “Non so se Umberto abbia preso un colpo di sole o qualche bicchiere di troppo”. Nessuno gli ha detto dell’ictus.

Letizia Moratti promette: “Saremo più duri anche con gli immigrati comunitari”. Ponendo così fine a un’ingiusta discriminazione.

“Espelleremo chi non rientra nei requisiti di reddito minimo e dimora adeguata”. Un altro duro colpo alla ricerca universitaria.

Alluvione nel Kashmir. Milioni di capre ristrette.

Il Pakistan è in ginocchio e non riesce a far fronte all’emergenza. Con tutto quello che hanno speso per avere la bomba atomica?

L’Onu: “Gli aiuti non bastano”. Perciò non li manderanno.

Cile, 33 minatori intrappolati in una miniera: per la loro salvezza ci vorranno quattro mesi. Se scavano nella giusta direzione.

Al via la tessera del tifoso. Io continuo a preferire il microchip.

Itaca, trovata la casa di Ulisse. Ora ci vive il cognato.

mercoledì 25 agosto 2010

"Circo romano".Editoriale del Wall Street Journal dedicato alla situazione politico-economica italiana.


Il primo ministro italiano Silvio Berlusconi è impostata per mettere il suo governo a un voto di sfiducia il mese prossimo. Questa sarebbe la quarta volta questa estate , e il secondo in quanto una divisione nella coalizione di centro-destra di Berlusconi è emerso il mese scorso a minacciare la sua maggioranza parlamentare.

L'ultima rata in questa soap opera romana , provenienti mese prossimo , riguarda apparentemente piano di spazzare in cinque punti il signor Berlusconi per il paese : una maggiore autonomia fiscale per le regioni d'Italia , i tagli fiscali e un codice fiscale semplificato , lo sviluppo e le spese di infrastruttura per l'Italia meridionale ; giri di vite sull'immigrazione clandestina e la criminalità organizzata , e una revisione del sistema giustizia.

Oh, e tutto ciò che è completamente non - negoziabili: "Se la coesione mancare anche su uno di questi cinque punti. ... Ci sarebbe rifiutato di lasciare che le riforme che abbiamo promesso essere negoziato giù, " il signor Berlusconi ha detto in il Corriere della Sera il Lunedi, aggiungendo che se il suo piano non dovesse vincere il sostegno della maggioranza nel suo complesso, "l' unica strada "saranno elezioni anticipate.

Ma nessuno della sua coalizione fratturata sembra essere d'accordo con l'impostazione del piano. L'unico vero punto della discordia sono le riforme giudiziarie, anche se soprattutto perché avrebbero allentare le pressioni sul legale merlate stesso Premier. Sulla necessità di riforme pro- crescita , in particolare, la destra italiana resta unita.

Allora perché l'ultimatum ? Bene, questa è l'Italia. Berlusconi è il gioco d'azzardo , intelligentemente , secondo la maggior parte dei sondaggi , che lui ei suoi alleati rimanenti roseo in elezioni anticipate , mentre la spremitura di alcuni dei dissidenti fastidioso alleato guidato dal signor Berlusconi, Gianfranco Fini. Il signor Fini ha portato più di 30 deputati della coalizione di Berlusconi alla fine del mese scorso dopo aver attaccato l'etica di alcuni amici di Berlusconi . Il signor Fini ha anche contestato un provvedimento controverso passato in Senato nel mese di giugno per limitare le intercettazioni ( la misura era legata ad un voto di fiducia , naturalmente ), e ha suggerito che i politici sotto inchiesta dovrebbe dimettersi , una proposta che potrebbe liberarsi di alcuni Mr. Berlusconi coorti.

Nel frattempo, l'Italia declina. Gli elettori hanno eletto Berlusconi tre volte le promesse di compattare lo Stato. Che cosa hanno ottenuto , invece, è una parata infinita di sfiducia voti, piccoli scandali , relativa stagnazione economica e la burocrazia sclerotizzata . Per fare solo un esempio, la Banca Mondiale afferma che ci vogliono in media 1.210 giorni per far rispettare un contratto in Italia, e che "il governo tale servizio di "costi di un'azienda di medie imprese italiane 68,4% dei suoi profitti.

Tenuto conto di questa confusione , è una testimonianza di ingegno e gli italiani ' verve che riescono ancora a produrre alcuni dei marchi di maggior successo al mondo e mantenere uno standard di vita ragionevole . Immaginate cosa potrebbero raggiungere se il signor Berlusconi non tenevano in ostaggio le sue promesse di dinamismo italiano a Bloodsport politica.

L'editoriale di Beppe Del Colle su "Famiglia Cristiana".


La Costituzione dimezzata
Il Cavaliere è sempre più insofferente delle "forme" e dei "limiti" previsti dalla Costituzione. Ecco l'Editoriale di "Famiglia Cristiana" n.35, in edicola dal 25 agosto.
24/08/2010
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.Berlusconi ha detto chiaro e tondo che nel cammino verso le elezioni anticipate – qualora il piano dei “cinque punti” non riceva rapidamente la fiducia del Parlamento – non si farà incantare da nessuno, tantomeno dai “formalismi costituzionali”. Così lo sappiamo dalla sua viva voce: in Italia comanda solo lui, grazie alla “sovranità popolare” che finora lo ha votato.

La Costituzione in realtà dice: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Berlusconi si ferma a metà della frase, il resto non gli interessa, è puro “formalismo”. Quanti italiani avranno saputo di queste parole? Fra quelli che le hanno apprese, quanti le avranno approvate, quanti le avranno criticate, a quanti non sono importate nulla, alle prese come sono con ben altri problemi? Forse una risposta verrà dalle prossime elezioni, se si faranno presto e comunque, come sostiene Umberto Bossi (con la Lega che spera di conseguire il primato nel Nord e, di conseguenza, il solo potere concreto che conta oggi in Italia). Ma più probabilmente non lo sapremo mai. La situazione politica italiana è assolutamente unica in tutte le attuali democrazie, in Paesi dove – almeno da Machiavelli in poi – la questione del potere, attraverso cento passaggi teorici e pratici, è stata trattata in modo che si arrivasse a sistemi bilanciati, in cui nessun potere può arrogarsi il diritto di fare quello che vuole, avendo per di più in mano la grande maggioranza dei mezzi di comunicazione.

Uno dei temi trattati in queste settimane dagli opinionisti è che cosa ci si aspetta dal mondo cattolico, invitato da Gian Enrico Rusconi su La Stampa a fare autocritica. Su che cosa, in particolare? La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano). Quale delle due metà deve fare “autocritica”: quella che ha scelto il Cavaliere, o quella che si è divisa fra il Centro e la Sinistra, piena di magoni sui temi “non negoziabili” sui quali la Chiesa insiste in questi anni? A proposito. Ivan Illich, famoso sacerdote, teologo e sociologo critico della modernità, distingueva fra la vie substantive (cioè quella che riassume il concetto di “vita” mettendo insieme, come è giusto, e come risponde all’etica cristiana, tutti i momenti di un’esistenza umana, dalla fase embrionale a quella della morte naturale) e ogni altro aspetto della vita personale o comunitaria, a cui un sistema sociale e politico deve provvedere.

Il berlusconismo sembra averne fatto una regola: se promette alla Chiesa di appassionarsi (soprattutto con i suoi atei-devoti) all’embrione e a tutto il resto, con la vita quotidiana degli altri non ha esitazioni: il “metodo Boffo” (chi dissente va distrutto) è fatto apposta.

martedì 24 agosto 2010

Lettera di Walter Veltroni all'Italia.Vorrei tanto che avesse miglior fortuna del Lingotto.


Caro Direttore, scrivo al mio Paese.

Scrivo agli italiani che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavoravano o perché non possono lavorare. Scrivo agli imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un'autostrada come la Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi
in questi mesi.
Scrivo ai lavoratori che sentono che si è aperto un tempo nuovo e difficile, in cui, per resistere alla pressione di una globalizzazione diseguale, dovranno rinegoziare e ritrovare un equilibrio nuovo tra diritti e lavoro. Scrivo ai nuovi poveri italiani, i ragazzi precari, che arrivano a metà della vita senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la sicurezza di poter mettere al mondo dei figli. E senza che politica e sindacati si occupino di loro.
Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, un secolo di questo tempo leggero e bulimico, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio. Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese.
Ma non è successo, per tanti motivi. Come cercherò altrove di approfondire, credo più per ragioni profonde e storiche che per limiti di quella campagna elettorale che si concluse con il risultato elettorale più importante della storia del riformismo italiano. Non è successo e dopo alcuni mesi io mi feci da parte. Forse è questo l'altro titolo per il quale sento di potermi rivolgere al mio Paese. Sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie). Non ho chiesto alcun incarico, non ho fatto polemiche, non ho alimentato veleni. Ho semmai taciuto e ingoiato fiele, anche di fronte a varie vigliaccherie.

Cosa sta succedendo a noi italiani? Abbiamo trascorso la più folle e orrenda estate politica che io ricordi. Una maggioranza deflagrata, un irriducibile odio personale e politico tra i suoi principali contraenti, toni e giudizi che si scambiano non tra alleati ma tra i peggiori nemici. E poi dossier, colpi bassi, una orrenda aria putrida di ricatti e intimidazioni che ha messo in un unico frullatore informazione, politica e forse poteri altri costruendo un mix che non può non preoccupare chi considera la democrazia come un insieme di regole, di valori, di confini. Il Paese assiste attonito allo sfarinarsi della maggioranza solida che era emersa dalle urne, a ministri che sembrano invocare freneticamente la fine della legislatura, nuovi voti, nuovi conflitti laceranti. Mentre stanno per essere messe in circolo emissioni consistenti di titoli pubblici per finanziare il nostro abnorme debito pubblico chi governa questo Paese sembra dominato dal desiderio della instabilità. E, tutto, senza una parola di autocritica. Chi ha vinto le elezioni e ne provoca altre neanche a metà delle legislatura vorrà almeno dichiarare il proprio fallimento politico?
L'alleanza di centrodestra sembra immersa nello scenario dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Prima l'abbandono di Casini, ora la irreversibile crisi con Fini. Le forze più moderate hanno abbandonato uno schieramento sempre più dominato dalla logica puramente personale degli interessi di Berlusconi e dallo spirito divisivo di una Lega che alimenta ogni forma di egoismo sociale con lo sguardo solo al tornaconto elettorale immediato. Con effetti che già registriamo nel sentire diffuso e nei comportamenti. Un Paese che smarrisce il suo senso di comunità, la sua anima solidale, la sua coscienza unitaria finisce con lo sfarinarsi violentemente.
Quella che stiamo vivendo è una profonda crisi del nostro sistema. Era la mia ossessione quando guidavo il Pd. Mi angoscia l'idea che la democrazia rischi sotto la pressione delle spinte populistiche e dei conservatorismi di varia natura. E la crisi di questi mesi rafforza una distanza siderale tra la vita politica e i reali bisogni dei cittadini e della nazione. Berlusconi forza costantemente e pericolosamente i confini immaginando di vivere in un regime che non esiste. Se ci fosse un semipresidenzialismo lui certo non potrebbe disporre, ciò che è già una insopportabile anomalia oggi, di giornali e tv con i quali promuovere se stesso e randellare i suoi avversari. Ma neanche quella che su questo giornale è stata giustamente definita la «repubblica acefala» può fare sentire al Paese che il sistema politico tempestivamente ascolta, comprende, decide. Indeterminatezza di tempi, modalità, sedi di decisione hanno accompagnato anche altre stagioni politiche.
Questo è il rischio che corriamo, l'alternativa tra una monarchia livida e una pura difesa dell'esistente. E tra i cittadini rischia di rafforzarsi l'idea che di fronte alla velocità del nostro tempo, dei suoi repentini mutamenti sociali e finanziari, a essere più «utile» sia un sistema che decide, qualsiasi esso sia. Il rischio è che si faccia strada, anche in Occidente, quella suggestione di «democrazia autoritaria» che è già una realtà in sistemi, come quello russo o, in forma diversa, in quello cinese, che stanno segnando il tempo della fine dei blocchi. La possibilità che la società globale porti con sé un principio di disunità e che questo reclami poteri centrali forti e semplificati è molto di più di un rischio. Rimando per una analisi più compiuta al volume di John Kampfner Libertà in vendita o al bellissimo lavoro di Alessandro Colombo La disunità del mondo. In una società globale una democrazia che non decide è destinata a soccombere. Ma in una società globale la suggestione autoritaria si scontra con una irrefrenabile esigenza di libertà, libertà di sapere, dire, pensare.
Dunque l'unica strada che i veri democratici devono percorrere è quella di una repubblica forte e decidente. Ma questa comporta profonde e coraggiose innovazioni, nei regolamenti delle Camere, nell'equilibrio dei poteri tra governo e Parlamento, nelle leggi elettorali, nella riduzione dell'abnorme peso della politica, nella soppressione di istituzioni non essenziali. Bisogna semplificare e alleggerire, bisogna considerare il tempo delle decisioni come una variante non più secondaria. E, soprattutto, l'Italia, tutta, deve ingaggiare una lotta senza quartiere alla criminalità che succhia ogni anno 130 miliardi di euro alle risorse del Paese. Non basta che si arrestino i latitanti. La mafia è politica, è finanza. La mafia compra e condiziona. La mafia invade tutto il territorio e credo che ora, guardando le cronache di Milano o di Imperia, ci si accorga finalmente che non è un problema della Kalsa di Palermo o una invenzione di Roberto Saviano, ma una spaventosa realtà che altera il mercato, distorce la concorrenza, limita la libertà delle persone.
Le culture di progresso non possono declinare solo un verbo: difendere. Agli italiani non sembra di vivere in un Paese da conservare così come è. Un Paese che non ha una università tra le prime cento del mondo (dopo averle inventate), che ha una metà, meravigliosa, di sé sotto il condizionamento di poteri criminali, che ha evasione altissima e altissima pressione fiscale, che ha una amministrazione barocca e il primato dei condoni, che scarta come un cavallo l'ostacolo ogni volta che deve sfidare sondaggi e corporazioni. Un Paese fermo, che ha bisogno di correre. Che ha bisogno di politica alta, ispirata ai bisogni della nazione. Non è retorica. Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e altri hanno dimostrato che si può stare a Palazzo Chigi per servire gli italiani. Bene o male, ma servire gli italiani. Non se stessi.
Spero che si concluda rapidamente l'era Berlusconi. Ma forse con una visione opposta a quella di alcuni protagonisti della vita politica italiana. Spero che finisca questo tempo non per tornare a quello passato. Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo e riportare l'orologio ai giorni in cui pochi leader decidevano vita e morte dei governi, quasi sessanta in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante. Anche perché quei partiti avevano storie grandi che affondavano nel Risorgimento o nelle lotte bracciantili e quei leader avevano fatto, insieme, la Resistenza o la Ricostruzione. Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché la sua anomalia (una delle tante, troppe della storia italiana) ha costretto dentro recinti innaturali, pro o contro, una dialettica politica che avrebbe potuto e dovuto esprimersi nelle forme tipiche della storia del moderno pensiero politico occidentale. Senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo, schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti, capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente in un Paese con una politica più lieve e perciò più veloce ed efficiente nella capacità di decisione del suo sistema democratico. Solo così sarà possibile affrontare, in un clima civile, l'indifferibile esigenza di ammodernamento costituzionale per dare alla democrazia la capacità di guidare davvero la nuova società italiana. Se saremo invece tanto cinici da pensare che il declino di Berlusconi possa aprire la strada a un nuovo partitismo senza partiti e alla sottrazione ai cittadini del potere di decidere il governo, finiremo con l'allungare l'agonia del berlusconismo e l'autunno italiano.
In questa estate orrenda non per caso la frase più citata dai leader politici è stata «Mi alleo anche con il diavolo pur di...». Lo ha detto Calderoli parlando del Federalismo, lo hanno detto alcuni leader del centrosinistra parlando della necessità di una santa alleanza contro Berlusconi. Io rimango dell'idea che invece le uniche alleanze credibili, prima e dopo le elezioni, siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica. In fondo il repentino declino del centrodestra conferma proprio questo. È giusto semmai che, in caso di crisi di governo, si cerchino soluzioni capaci di fronteggiare per un breve periodo l'emergenza finanziaria e sociale e di riformare la legge elettorale dando forma, per esempio attraverso i collegi uninominali e le primarie per legge, a un moderno e maturo bipolarismo. Perché poi, alle elezioni prodotte dal dissolvimento della destra, si presenti uno schieramento alternativo capace di assicurare all'Italia quella stagione di vera innovazione riformista che questo nostro Paese non ha mai conosciuto. Perché questo Paese deve uscire dall'incubo dell'immobilità che perpetua rendite e povertà. Deve conoscere un tempo di radicale, profondo cambiamento. È questo, da decenni, il frutto dell'alternanza nei diversi Paesi europei.
Il nostro è un meraviglioso Paese. Amare l'Italia e gli italiani dovrebbe essere una precondizione per partecipare alla vita politica. Chiunque alzi gli occhi nella Cappella Palatina di Palermo o nella galleria di Diana di Venaria Reale non può non sentire tutto intero l'orgoglio di essere figlio di questo Paese e della sua straordinaria e travagliata storia. Lo stesso orgoglio che si prova pensando agli italiani che lavorano per la nazione, imprenditori od operai, insegnanti o poliziotti. Per questo il nostro Paese merita di più. Merita di più dei dossier e dei veleni. Di più della politica ridotta a interesse di un leader. Di più delle alleanze con il diavolo. Il nostro Paese deve smettere di vivere dominato solo da passioni tristi. È difficile. È possibile.